lunedì 30 marzo 2020

Maledetta Pannonia


Non c’è dubbio che l’Ungheria sia nel bene e nel male il crocevia dell’Europa è storicamente i suoi interventi anche se non determinanti sono stati al centro di tutte le grandi operazioni di mutamento storico. Come non ricordare la Pannonia Superiore e Inferiore al tempo dei romani, quella era terra di confine, di barbari, di nuove popolazioni che si affacciavano ai bordi dell’Impero. Insieme con la Dacia misero in estrema difficoltà molti imperatori e impegnarono fior di legioni. Attila passò proprio di li nello sfondare le linee romane prima di incontrare i suoi oppositori: il generale Ezio e il Papa Leone. In tempi più recenti a Mohacs, 1526, si immolò contro Solimano il Magnifico tutta la nobiltà ungherese e gli Asburgo presero le redini di ciò che restava dell’Ungheria e iniziò fino alla battaglia di Vienna del 1683 il dominio turco. Nel 1867 ottennero un po’ di autonomia, quella reclamata 18 anni prima da Lajos Kossuth poi espatriato e morto a Torino, e si batterono con furia contro gli italiani durante il primo conflitto (il nonno beppe mi parlava proprio di croati e ungheresi mai austriaci nelle sue battaglie sull’Isonzo). Nel secondo conflitto mondiale accompagnarono gli italiani in Russia e il cedimento dell’ala dell’armata ungherese porto all’accerchiamento e alla successiva sconfitta dell’Armata di Von Paulus, alcune unità si salvarono a rimorchio di quelle italiane a Nikolajewka. Horthy a differenza di Hitler e Mussolini cercò l’armistizio con russi e americani ma il suo doppio gioco fu scoperto e la nazione da invasore diventò occupata anche se solo per pochi mesi. Nel 1945 il dominio tedesco cessò e inizio quello del Patto di Varsavia finito nel 1989. La storia recente ci parla di un popolo perennemente alla ricerca della sua dimensione ma di fatto attraversato dalla storia in modo verticoso. Quale sarà il prossimo passo    

giovedì 26 marzo 2020

L'eccidio di Villanova Mondovì

 
Le guerre di religione sono state un passaggio doloroso e molto pesante della metà degli anni quaranta del 1600 e non ne è stato immune anche il territorio piemontese. Il Piemonte era terra di passaggio di truppe francesi e spagnole ma quello che successe a Villanova Mondovì fu particolarmente cruento e curioso legato più che a motivazioni religiose a cause dinastiche. La successione di Vittorio Amedeo di Savoia I portò allo schieramento di due diversi partiti quelli che sostenevano la duchessa Maria Cristina e quelli che invece erano dalla parte dei principi Tommaso e Maurizio. A Villanova Mondovì erano molti quelli si schierarono a favore dei principisti e questo indusse la Duchessa verso la metà del 1641 a mandare sul posto un Reggimento di ugonotti francesi che occuparono il territorio, i francesi erano comandati da un luogotenente dal nome un po’ strano come Mariscalla. La pace faticosamente raggiunta nel 1642 non comportò l’allontanamento dell’occupazione straniera e le cronache locali narrano che i transalpini cominciarono a diventare insolenti e feroci e si macchiarono di diversi furti rendendo, di fatto, la popolazione insofferente. Oltretutto l’occupazione non era indolore e sui locali gravava anche una tassa, una lira al giorno per i soldati che diventava tre nel caso di sergenti. I Villanovesi stufi dell’andazzo decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi dei francesi. Il 28 aprile del 1644 invitarono i militi stranieri ad un banchetto pantagruelico, verso mezzanotte partiva la parola d’ordine dall’osteria del Cappel Verde: “il forno è caldo fate il pane”. A questo segnale tutti i soldati francesi furono uccisi, una scena che richiama lo sceneggiato il Trono di spade ma che si verificò. I resti dei soldati furono seppelliti in una località chiamata Morteis. La duchessa rimase impressionata dall’evento e chiese giustizia ma di fatto, nonostante l’inchiesta sviluppata dal Governatore di Mondovì e qualche arresto non si procedette a nessuna punizione esemplare, i tempi non lo consentivano e soprattutto c’era l’esigenza di non aumentare la tensione in quelle zone. Villanova poi entrò in conflitto con Mondovì per la gabella sul sale ma quella è un’altra storia.

martedì 24 marzo 2020

1973 - 47 anni dopo


Giovanissimo, la crisi del petrolio la guerra del Kippur, giornali che certificavano un’austerity quanto mai pesante, un futuro completamente diverso da come era stato prospettato. Una televisione in bianco e nero proponeva cronache di guerra, battaglie e mega riunioni da parte degli emiri che volevano mettere in ginocchio l’economia occidentale. E noi come la vivevamo: le domeniche erano quelle delle targhe alterne, pochi motori in giro e si stava in allegria tutti insieme magari a centro strada; i mezzi più disparati dai cavalli alle due ruote senza motore (bici). Grandi partite di pallone e tante amicizie nate proprio in quel periodo di condivisione. All’epoca n0n fu una malattia a unirci ma la voglia di rialzare la testa in un periodo assolutamente difficile, e per chi era milanista come il sottoscritto il 1973 era stato un anno terribile in tutti i sensi, un successo europeo e uno scudetto, quello della Stella scucito al Bentegodi. Di solito si perdono i ricordi di quando sei piccolo ma la fatal Verona e le targhe alterne sono indelebili nei miei ricordi

Glossario al tempo del Coronavirus
Autocertificazione: strumento o foglio stampato in proprio che riporta indicazioni espresse dal Ministero degli interni (come le leggi ha più varianti e validità temporanee)
Lockdown chiusura totale delle varie attività fatte salve quelle (elenco di codici ateco……..) esiste una variante inglese chiamata lockdown all’italiana
Tampone strumento tecnico per valutare positività o negativa della persona al coronavirus
Mascherine di tutti i tipi dimensioni, codici e funzionalità
Videoconferenze: politiche, aziendali, famigliari non esiste discussione che non sia passata alle forche caudine dei collegamenti internet
Webcam: strumento insostituibile per i collegamenti indispensabile
Smart working: formula inglese che certifica il lavoro dal proprio tinello
Dress code: termine desueto non utile per le riunioni da svolgere in videoconferenza, conta il dialogo non come ci si presenta



lunedì 23 marzo 2020

Risorgimento un anno vissuto pericolosamente



23 marzo 1848 – 23 marzo 1849. 365 giorni dal 1848 al 1849 l’età delle illusioni risorgimentali dalla primavera tesa con le cinque giornate lombarde in cui fioriva lo spirito italico in tutte le regioni italiane alla Battaglia della Bicocca a Novara che vide la fine delle gloriose speranze sabaude di mettere la museruola all’esercito austriaco e la susseguente abdicazione di Carlo Alberto a favore di Vittorio Emanuele. E’ incredibile come in un lasso di tempo così esiguo si siano consumate vite, sogni e aspettative in modo così veloce. Un 1848 che era stato la primavera risorgimentale europea con moti che scoppiavano in tutte le piazze continentali e una restaurazione successive dolorosa soprattutto per le italiche speranze. Milano e i suoi Martinitt, Cattaneo, Goito, Curtatone e Montanara tutte gloriose pagine di un furore patriottico destinato a scemare in breve tempo. Custoza e Novara avevano segnato la gloria più sabauda che italiana e proprio in quel periodo era maturata quella classe dirigente che nei successivi dieci anni avrebbe condotto all’unità. Questo significa solo una cosa, quando si cerca un obiettivo non importa se si parte da lontano ma basta avere idee ben salde e imparare a ragionare su schemi diversi, allora tutto diventa possibile. Lo fu nel 1849/1859 lo deve essere sempre. Prendiamo esempio dai nostri padri, da Cavour, da Vittorio Emanuele e nulla sarà più precluso. E anche se vieni da una cocente sconfitta, trova in essa i prodromi del riscatto

sabato 21 marzo 2020

Granadier Piemontais ne se reandant jamais


Filippo del Carretto Conte di Camerano il 13 aprile del 1796 cadde alla testa dei suoi uomini di fronte alle truppe di Napoleone nella strenua difesa della Cosseria dopo aver pronunciato in risposta al generale francese Pierre Banel “Sachez que vous avez à faire aux grenadiers piemontais, qui ne se rendent jamais!” Il caposaldo della resistenza piemontese nella prima guerra napoleonica rappresenta una delle pagine più gloriose dell’esercito sabaudo e anche una degli scontri più sanguinosi a cui andò incontro Napoleone nella sua carriera militare. Il forte, in territorio ligure, e che difendeva la Valle Bormida era difeso da 1079 uomini in gran parte piemontesi e con un contingente croato dell’esercito austriaco con cui i Savoia avevano stretto l’alleanza antinapoleonica. Del Carretto difendeva un castello di proprietà della sua famiglia, i suoi uomini erano carenti di acqua, di artiglieria, di assistenza sanitaria e cibo e resistettero per 48 ore a furiosi assalti nemici. I francesi lasciarono sul terreno oltre 1000 uomini e occuparono la fortezza alle sei del mattino del 14 aprile dopo aver reso l’onore delle armi al contingente piemontese che sotto la guida di Filippo, che cadde colpito da una palla di fucile alla sera del 13 aprile, aveva reso impossibile la loro avanzata. Moriva così sul campo uno degli ufficiali più preparati dei Savoia che aveva studiato tattica militare in Prussia all’epoca di Federico il Grande ma che, per amore della figlia del conte francese Loius de Lamezan Sains, lasciò l’esercito in giovane età diventando di fatto un gentiluomo di campagna. Ma l’onore e la fedeltà alla casa Savoia all’età di 34 anni lo porta a imbracciare nuovamente le armi e a scendere in campo per difendere il Regno di Sardegna dell’assalto delle truppe francesi. Sono quattro anni di campagne in cui si distingue per perizia militare e per le numerose ferite ricevute. Nel 1794 si segnala a Ponte di Nava e nel coprire la ritirata dell’esercito sabaudo su Ceva. Nella campagna del 1795 rimane di nuovo ferito alla gamba sinistra mentre organizzava a Vado le truppe in linea di battaglia, ma non abbandona la posizione e rimane in prima linea. Alla battaglia di Loano del 23 novembre viene ferito allo stomaco e, ciò nonostante, non lascia il campo di battaglia per farsi curare se non a scontro ultimato. L’epilogo il 13 aprile 1796 alla Cosseria

Cattivi pensieri e anche un po' tristi


Mi piace ricordare quando giovane studente universitario a Milano, avendo preso in affitto un alloggio in Via Sottocorno 7 mi ero fatto installare un telefono per rimanere in contatto con il mondo e il numero che mi avevano dato era appartenuto in precedenza all’ufficio stampa dell’Inter. La prima telefonata che ricevetti fu quella di Bruno Pizzul, sembrava una telecronaca, e li per li fui interdetto; la seconda di Gianni Mura con il quale intrattenni una breve conversazione, con il giornalista che al mio primo diniego del numero sbagliato, disse magari Lei sarà milanista, ecco aveva proprio centrato il punto. Una voce scavata, scultorea e una capacità di mettere della vera poesia nel calcio. Discepolo di Brera, di cui inconsapevolmente aveva preso l’eredità con la cultura del Giuanin e con la verve ironica di Beppe Viola. Con lui scompare un)a categoria di giornalisti sportivi di classe cresciuti con la televisione ma che erano e sono rimasti dei giornalisti di penna sopraffini e dotti. Piacevoli da leggere e mai sopra le righe, tifosi nel profondo ma senza mai darlo a vedere, goderecci e al tempo stesso di palato fine. Insomma un lusso che oggigiorno non possiamo permettercelo in un mondo perennemente percorso dalla velocità che ci fa perdere la bellezza della lentezza e di saper assaporare anche un frutto così incontrovertibile come lo sport.

Ci sono quei giorni che è impossibile dimenticare e poi c’è tutto il resto, che passa e che è tutto un costruire, un crescere, sbagliare, e pensare e fare un passetto in avanti, e poi tornare indietro, sbagliare strada, fare una salita, e una discesa, una salita, e una discesa. (cit- Gianni Mura)

martedì 17 marzo 2020

Tua Madre è morta / il bar e il jukebox #CollegioDalPozzo



Nell’asettico Collegio il bar era il punto di ritrovo di molti di noi, un passaggio obbligato, e non solo per l’acquisto di derrate, stuzzichini e bibite, ma anche per ritrovarsi e per fare gruppo. Era la santabarbara in cui distrarsi, il primo luogo che vedevi la mattina, l’ultimo in cui ti distraevi prima di andare in camera dopo cena. Era posizionato sul fondo del lungo corridoio alla fine di tutte le aule didattiche in cui si suddivideva il collegio, confinava proprio con la settima, la madre di tutte le aule, quella usata per i buchi d’ora e gli esami a fine corso, quella del tutti dentro appassionatamente.
 Posizionato sotto gli armadietti luogo in cui ogni convittore disponeva di uno spazio in cui depositare i propri libri e tribunale punitivo quando venivi convocato dai “vecchi”. Quando questo avveniva salivi quelle scale con il groppo in gola e con i sudori freddi che percorrevano la tua schiena, in attesa dell’estremo giudizio, quasi mai benevolo. Sotto la scala un portone in ferro chiuso, e di cui pochi avevano le chiavi, si apriva alle sette di mattina, il suono di una macchinetta ciclico faceva presagire la concessione della colazione (te o cioccolata a seconda dei gusti). Il nostro precettore, dopo averci svegliato con metodi spicci, guai a dormire a pancia in su, si rischiavano le gonadi, ci attendeva, pronto a salutarci ad uno a uno in un intercalare unico e monotono per muoverci e stimolarci alla giornata
Ma svegliarsi alla prima campanella non era mai facile, alle sette e venti suonava per la seconda e ultima volta la scellerata sirena e toccava fare tutto di fretta, l’acqua freddissima che bagnava la faccia suggeriva ai ritardatari della camerata una corsa veloce, perché i tempi, anche per la colazione, così come le brioche, erano contati e a meno venti, quando suonava la campanella per l’ultima volta prima della scuola, non c’era più spazio per i ritardatari.
Le derrate erano sempre quelle, ma i convittori non protestavano mai, era una piacevole routine. Dopodiché spazio allo studio il bar riapriva solo dopo pranzo, alle due, ed era l’occasione per bivaccare, leggere giornali sfatti, cazzeggi vari sulle improbabili panche, l’immancabile flipper e poi il jukebox (che ne sanno i 2000) canzoni vecchie e ripetute all’infinito, ma una su tutte la più gettonata, quella dei Tears for Fears, Mad World, quando si dice il destino cinico e beffardo. Un florilegio di musica dura e al tempo stesso coinvolgente Rolling Stones, Iron Maiden e tante altre canzoni icone della nostra frustrazione e della prigionia. Rimaneva la bellezza del mezzo che ci riconciliava con il modo esterno e ci dava una parvenza di tranquillità. Ogni tanto qualcuno tentava qualche confidenziale musica italiana ma veniva cazziato e sbeffeggiato in malo modo, rischiando pesanti sanzioni. L’arredamento del luogo era minimalista, lunghe panche in legno flipper, jukebox,  tavolini e l’immancabile bancone, una sorta di confine che però non era precluso a tutti.
Ma il clou del bar era dopo cena, un vero e proprio ricettacolo (una sorta di bar di guerre stellari ante litteram) di incontri, di giochi e di cazzeggi della durata di un’oretta, l’ultima ora d’aria prima del ritorno alle camere, poi chi voleva rimaneva a studio, chi invece non se la sentiva di stare chino sui libri tornava in camera.
Una volta complice anche la rottura di un vetro piccolo, sopra la porta ai “vecchi” venne in mente di trovare una cavia, ovviamente un nuovo convittore, che andasse a recuperare le provviste li depositate, l’esperimento ebbe luogo e naturalmente i committenti beneficiarono di questa inattesa fortuna, ma fu più il gioco e la bravata che non il cospicuo bottino, ovviamente tutti sapevano ma nessuno disse nulla, erano i cosiddetti segreti e storie da raccontare epopea di un mito, quello del Collegio.
E allora torna ancora in mente anche un ‘altra delle hit single del periodo che echeggiava dal juke box Peter Shilling Major Tom Vollig Logsgelost : “nothing left to chance -  all is working - trying to relax -up in the capsule (niente è lasciato al caso, tutto funziona, cerca di rilassarti sei in una capsula). One, two three, four ….. eh Già.

mercoledì 11 marzo 2020

I colori rossoneri mettono le aliiiiiii


Tra una pandemia conclamata e un campionato dimezzato e probabilmente annullato il povero tifoso milanista non riesce a raccapezzarsi più. Dopo il decennio dorato delle tre finali di Champions inframmezzate da campionati e coppe. Una misera supercoppa italiana recuperata a Doha con la coppia Pasalic Donnarumma abbiamo vagato nel limbo di una classifica a metà come una Sampdoria qualsiasi. Abbiamo bruciato vecchie glorie dei tempi che furono: Inzaghi Seedorf Gattuso solo per citare i più illustri e sacrificato sull’altare del Dio calcio mostri sacri come Leonardo e Boban. La prossima vittima sacrificale sarà l’eterno l’immutabile Maldini per un colore rossonero che è sempre più sbiadito e sottile come le righe della maglia. Adesso si rilancia il futuro arriverà Arnault con le sue borse firmate, sai che figo arrivare all’allenamento con le sacche d’ordinanza, oppure la nouvelle vague della squadra giovane che non deve chiedere ma stupire e magari condita con quella bevanda che fa realizzare voli pindarici impossibili. Tifosi stufi ma crediamo sempre pronti a guardare con immutato ottimismo al futuro quello che predicava Kilpin fin dal 1899, e non c’è sponsor o Rangnik che tenga ma quei colori ti mettono le ali a prescindere

we shall back


11 marzo di 78 anni fa all’apogeo dell’espansione giapponese c’era un a una penisola che stava resistendo al pericolo giallo, ma l’assenza di rifornimenti, di munizioni e di riserve costringe gli americani e i loro alleati filippini alla resa. A Corregidor nella penisola di Bataan fu fatto uscire, anche controvoglia il generale Douglas Mac Arthur, che prima di andarsene costernato di non poter rimanere a condividere la sorte degli uomini che aveva comandato pronunciò la storica frase “we shall back”. E mantenne la promessa anche a scapito della tattica militare che prevedeva il cosiddetto salto della rana (si trattava di tagliare i rifornimenti di tutte le isole del Pacifico senza attaccarle tutte ma attaccando una in profondità lasciandosi alle spalle truppe nemiche che sarebbero state poi costrette alla resa sui restanti isolotti, per scarsità di rifornimenti) per cui nell’ottobre del 1944 con una flotta immensa sbaragliò i giapponesi a Leyte e tornò da trionfatore nell’arcipelago filippino. Una promessa era una promessa a maggior ragione nel momento estremo in cui era stata pronunciata, quando non si intravedevano spazi di luce e di rivalsa. Sono i gesti che fanno gli uomini e ne costruiscono il mito, Mac Arthur, come Churchill, come Patton e, se guardiamo al fronte opposto come Rommel, danno la dimensione del proprio carisma affrontando il pericolo e la difficoltà ritti sulle loro convinzioni e sui propri principi. Con il loro esempio nulla è precluso e rimane la speranza; e allora parafrasando il periodo attuale e tutte le sue difficoltà vale la pena di gridare ad alta voce “we shall back” ne siamo sicuri

Sempre la solita storia non si impara mai


Siamo in tempi di coronavirus questa è l’attualità che ci compete ma in passato anche quello meno recente il Piemonte è stato teatro di altre epidemie. Logico chiedersi e verificare come la nostra gente abbia reagito e quello che è successo nel nostro territorio. La storia ci racconta agli inizi degli anni Trenta del 1800 di un’epidemia di colera che, parte da Marsiglia giunge nel territorio del regno di Sardegna, e si registrano diversi contagi soprattutto nel Cuneese a Torino a Genova e poi a macchia d’olio in tutta Italia. Centinaia i morti accertati e migliaia le persone infettate per una malattia che compare nella storia italiana per altre sei volte in tutto il Risorgimento. Il colera si sviluppa in Asia e più precisamente in India nel 1817 e dopo un lungo viaggio arriva in Europa nel 1830. All’epoca gli scambi avvenivano attraverso i mari e proprio sulle rotte del commercio era più facile che le malattie venissero trasmesse. Le autorità dell’epoca istituirono dei cordini sanitari marittimi e stabilirono anche un giorno di quarantena per le imbarcazioni che provenivano da paesi sospetti.

Avuto sentore della malattia che stava rapidamente prendendo corso alcuni stati italiani, tra cui il Granducato di Toscana, mandarono all’estero i propri medici per studiare la malattia il decorso e per stabilire le misure da prendere. Quando l’epidemia scoppiò nella vicina Francia Carlo Aberto di Savoia ordinò alle truppe di stendere un cordone sanitario tra Sanremo e Ventimiglia e da Cuneo e Nizza. Nel dispositivo di legge si stabiliva che veniva punito con la morte chi violava i cordoni sanitari terrestri e marittimi Nel luglio del 1835 quando il colera era ormai al confine quasi tutti gli Stati, soprattutto quelli al nord, riorganizzarono il sistema di lazzaretti consapevoli che le misure adottate non sarebbero riuscite a risparmiare l'Italia dal colera.
 
Ma l’Italia all’epoca era un coacervo di Stati che mise in difficoltà l’applicazione dei cordoni. La chiusura portò in rovina tutte quelle famiglie che si reggevano su lavori agricoli stagionali che comportavano lunghi spostamenti, o sui commerci di derrate trasportate dalle aree di produzione ai mercati di consumo e alle fiere. Per superare i cordoni marittimi le navi dovevano arrestarsi a distanza di sicurezza dal litorale, il responsabile dell'imbarcazione con una scialuppa si avvicinava alla costa per esibire la patente sanitaria.
 
Ma tutte queste precauzioni furono inutili perché o per motivi pecuniari o altro diverse persone boicottarono i cordoni e la malattia avanzò portando morte e disastri in tutta Italia Una lezione che anche oggi non abbiamo ancora imparato

giovedì 5 marzo 2020

La prima linea aerea con passeggeri partiva da Torino nel 1926


Caselle, Levaldigi oggi sono moderni aeroporti e i collegamenti con altre città consentono ai passeggeri di trasferirsi in poche ore da un capo all’altro dell’Italia e anche dell’Europa, ma un secolo fa ? Nel 1919 quello di portare avanti linee per passeggeri era un esigenza che alcuni costruttori, tra cui Caproni, sentivano in modo impellente, i modelli che si costruivano prendevano le forme da vecchi bombardieri ma mancava tuttavia la domanda, all’epoca gli aerei venivano usati per il trasporto della posta, non si sentiva ancora l’esigenza di spostarsi usando il volo, il treno era di gran lunga il mezzo privilegiato. Tuttavia in quel periodo appena subito dopo la guerra gli scioperi erano all’ordine del giorno per cui la necessità divenne virtù. I primi a pensarci furono i fratelli Cosulich di Trieste che ebbero l’idea di portare in volo i clienti del loro hotel di Portorose (un paese ora in Slovenia famoso per le sue acque curative), inizialmente usarono vecchi residuati della Prima Guerra Mondiale, poi si fecero costruire un idrovolante confortevole a cabina chiusa in cui potevano entrare quattro passeggeri e il loro bagaglio. La linea prescelta era quella che partiva da Portorose e dopo aver toccato Trieste, Venezia e Pavia arrivava a Torino, la linea era giornaliera e prevedeva due idrovolanti in partenza dal paese sloveno e altrettanti in volo da Torino per Portorose. Il costo del biglietto era di circa 300 lire e il viaggio poteva durare fino a cinque ore, certo nulla a che vedere con il confort di cui sono dotati gli aerei oggi, ai passeggeri veniva fornita una bottiglia di acqua calda e dei batufoli di cotone che lenivano il rumore alle orecchie per il frastuono dei motori. Le regole erano abbastanza restrittive non si poteva parlare con il personale di volo (i piloti) ne si potevano gettare oggetti dai finestrini, in compenso si poteva fumare. Le condizioni atmosferiche buone erano condizioni ottimali per il perseguimento del viaggio ma in caso di problemi bastava ammarare. A Torino di partiva dal Valentino sul lungo Po ed era sicuramente un attracco di un certo prestigio. I voli erano sempre pieni e tutto sommato era una sorta di avventura che piaceva molto

martedì 3 marzo 2020

Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza


Sono decisamente sobbalzato sulla sedia quando a margine di un post su facebook dedicato alla politica (beninteso non mi interessa difendere un partito rispetto a un altro) è stata usata un immagine di soldati che avevano combattuto la prima guerra mondiale ma che sono stati identificati come italiani (in realtà erano inglesi). Sarebbe bastato dare un occhiata alla divisa, rigorosamente anni 1917 – tra l’altro è appena uscito il film, che dipinge per bene scenograficamente proprio la Grande Guerra. Oggi nella vasta platea di internet si trova di tutto ma spesso molte cose vengono usate a sproposito, manca una cultura solida di base che spieghi o che faccia innamorare del nostro passato. Mi chiedo ad esempio come icone di quel periodo, penso a Enrico Toti (non l’attaccante della Roma che ha appeso le scarpe al chiodo) a Damiano Chiesa, Cesare Battisti (il patriota impiccato a Trento non il leader dei Pac) a Fabio Filzi,  luoghi simbolo della guerra come il Monte Sabotino, del Podgora di Gorizia o eventi come la Strafexpedition , oppure la Beffa di Buccari siano conosciuti nelle nostre giovani generazioni. Persone, miti che meriterebbero di essere conosciuti al meglio e studiati perché proprio loro contengono i prodromi della nostra Italia. E invece nel vaniloquio culturale e anche del mondo dell’insegnamento il passato rappresenta sempre un inutile orpello e una materia sotto – utilizzata. Non è questione di date o di numeri è proprio la capacità di capire attraverso letture studi e anche interessi momenti di vita quotidiana. Nel decennale della morte di Alberto Ronchey eminente giornalista già ministro dei Beni Culturali sarebbe bello pensare a un futuro migliore per la nostra cultura

lunedì 2 marzo 2020

Enzo Albertini il Signore del calcio biellese


Sono sincero non mi sono mai piaciuti i coccodrilli, ma alle volte senti il bisogno di raccontare la qualità di persone conosciute e che sono passate attraverso il percorso lavorativo, e non solo, della tua vita. Oggi scopro leggendo i giornali on line della scomparsa di una persona che ha fatto parte della storia della Biellese calcio. Uno sportivo che difendeva la porta della Biellese ma che ho avuto modo di apprezzare come dirigente e primo tifoso della squadra laniera: Enzo Albertini. Un uomo con un aplomb e un rispetto desueti in un mondo in cui è facile trovare urlatori e pressappochisti. La sua Presidenza era un orpello di vera classe e di charme in tribuna e di un amore incondizionato per i colori bianconeri (questi sono ammessi) Ammetto anche di averla seguita sui campi di serie C2, arrivando persino a una trasferta al Natale Palli di Casale, una partita sfortunata ma che ho avuto la fortuna di affrontarla con mio padre. Già l’Adriano che avevo spinto a frequentare il parquet del basket si era avvicinato alla Biellese e ne aveva seguito le gesta per diversi campionati, gioie e delizie ma anche delusioni, ma quando segui sport tutto questo lo metti nel conto. Tornando alla partita di Casale nel doppio confronto abbiamo perso e la squadra è stata retrocessa, ma il buon Enzo Albertini chiese e ottenne il ripescaggio, perché il calcio del quadrilatero non poteva perdere tra le sue protagoniste: la Biellese. Ora quelle gesta sembrano lontanissime ma nella ciclicità delle storie di provincia sono sicuro che qualcuno raccoglierà il testimone di bellezza sportiva che il buon Enzo rappresentava.

Pallone sgonfiato o fenomeno in declino


Sarà il coronavirus pallonaro, ma la confusione ingenerata negli ultimi giorni da chi dirige la fiera del football d’Italia è assolutamente folle, partite sospese, altre annullate, altre giocate a porte chiuse, altre rinviate sine die. Un presappochismo quanto mai deleterio in cui il tifoso come al solito è visto nella migliore delle ipotesi come un inutile orpello, oppure una mucca da mungere. Costi spaventosi per uno spettacolo che ha perso molto negli ultimi anni del suo fascino che lo eleggevano a fenomeno di costume e di società domenicale. La televisione, lo spezzatino, i giocatori multipagati, insomma un declino quanto mai cercato e voluto di un giocattolo che rischia seriamente di alzare bandiera bianca e di stufare i milioni di appassionati che, complice anche le nuove tecnologie, trovano sempre modo di relazionarsi e parlarsi su risultati, arbitri e tendenze. Cari vertici trovate soluzioni condivise e se possibile cercate di dare raziocinio e organizzazione a un sistema che se non supportato rischia di scomparire, sarebbe una vera iattura, anche perché di cosa parliamo poi ?

Dal 1797 la Tassa di Successione

 
 

Sarà che la successione è sempre stato un balzello quanto mai odioso e non solo per la mole di documenti da produrre, oltre a una trafila burocratica quanto mai infinita non solo per i documenti da presentare ma anche per il tempo che si impiega nel chiudere le pratiche, infine perché di fatto devi pagare qualcosa che è già tuo. Logico immaginare anche in passato una certa idiosincrasia sull’elemento. Ma com’era la situazione nel ducato di Savoia ?. Lo Stato era stato uno degli ultimi a introdurre il tributo con l’editto ducale del 23 gennaio 1631, eravamo però in un periodo di guerre e di truppe straniere che transitavano nei territori del piccolo regno, e quindi, trovare risorse, era quanto mai necessario anche per pagare la diaria per i soldati, tant’è vero che l’imposizione era stata pensata come una sorta di balzello temporaneo effettuato nelle annate 1630/1631 per far fronte, oltre alle piaghe delle guerre, anche a un’epidemia di peste di manzoniana memoria, che imperversava in quel periodo. Secondo questa gabella, le successioni in linea retta erano però esentate mentre le altre erano tassate nella ragione del 5%. Tale imposizione viene poi ripristinata nel periodo napoleonico nel 1797 con un’aliquota maggiorata del 10 % ogni qual volta la successione superasse le 1000 lire, ma anche se la cifra era come in questo caso ragguardevole erano riconosciute esenzioni per i parenti stretti (fratelli, sorelle, nipote zii e zie). Anche se non è possibile parametrare l’incidenza di questa imposta in quanto per il giudizio complessivo si dovrebbe fare un valutazione con tutto il sistema tributario il valore di questa imposta sia per il 16.30, ma anche per quello all’inizio del periodo napoleonico si può affermare che le aliquote pensate all’epoca fossero di gran lunga inferiori a quelle che si pagano oggigiorno e per di più le esenzioni tenevano nel giusto conto anche la linea di sangue che intercorreva tra il de cuius e il suo successore. Da quel periodo poi le tasse sono sempre aumentate di peso ma di questo penso che ce ne siamo accorti tutti  

Briganti la serie Netflix che si ispira alla storia del Brigantaggio meridionale

Pietro Fumel  Le fiction storiche da sempre mi attirano e su Netflix mi sono lasciato trascinare a guardare quella dedicata al brigantaggio ...