martedì 14 febbraio 2017

Hawksaw Ridge (Okinawa) dove sopravvivere era già un bel risultato

216 sopravvissuti su un numero iniziale di 21.000 una divisione, 7.400 uomini di una guarnigione forte di più di centomila unità. Di chi stiamo parlando, ma dei giapponesi che contesero le isole di Jwo Jima e di Okinawa nel 1945 agli americani e che sopravvissero alle battaglie. Il recente film di Mel Gibson ha messo in evidenza un fronte, quella della seconda guerra mondiale, in cui le carneficine erano all’ordine del giorno. I guerrieri nipponici avevano solo onore se riuscivano a mandare all’aldilà il maggior numero dei nemici possibili, quanti riferimenti anche ai moderni teatri di guerra. Quella non era una guerra, era un massacro continuo che sarebbe dovuto terminare solo con l’annientamento totale dell’avversario. Il soldato Doss, vero titolo del film (la battaglia di Hawksaw Ridge) narra le gesta reali di un obiettore di coscienza, o meglio di un infermiere, che combatte per far sopravvivere più compagni possibili (più di settanta quelli alla fine salvati). Un immagine meschina della guerra come annientamento dell’essere umano che si contrappone alla speranza di salvare delle vite. Un film didascalico che dipinge in modo preciso il teatro di guerra (anche se Gibson esagera nel rapporto tra giapponesi killer e americani salvatori – era andato meglio Clint Eastwood in Lettere da Jwo Jima in cui aveva fatto emergere le due diverse personalità) e che  ci ricorda come in una battaglia e in una guerra poi chi perde è sempre l’uomo, a prescindere dalla bandiera sotto cui combatte.   

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