216 sopravvissuti su un numero
iniziale di 21.000 una divisione, 7.400 uomini di una guarnigione forte di più
di centomila unità. Di chi stiamo parlando, ma dei giapponesi che contesero le
isole di Jwo Jima e di Okinawa nel 1945 agli americani e che sopravvissero alle
battaglie. Il recente film di Mel Gibson ha messo in evidenza un fronte, quella
della seconda guerra mondiale, in cui le carneficine erano all’ordine del
giorno. I guerrieri nipponici avevano solo onore se riuscivano a mandare all’aldilà
il maggior numero dei nemici possibili, quanti riferimenti anche ai moderni
teatri di guerra. Quella non era una guerra, era un massacro continuo che
sarebbe dovuto terminare solo con l’annientamento totale dell’avversario. Il
soldato Doss, vero titolo del film (la battaglia di Hawksaw Ridge) narra le
gesta reali di un obiettore di coscienza, o meglio di un infermiere, che
combatte per far sopravvivere più compagni possibili (più di settanta quelli
alla fine salvati). Un immagine meschina della guerra come annientamento dell’essere
umano che si contrappone alla speranza di salvare delle vite. Un film
didascalico che dipinge in modo preciso il teatro di guerra (anche se Gibson
esagera nel rapporto tra giapponesi killer e americani salvatori – era andato
meglio Clint Eastwood in Lettere da Jwo Jima in cui aveva fatto emergere le due
diverse personalità) e che ci ricorda
come in una battaglia e in una guerra poi chi perde è sempre l’uomo, a
prescindere dalla bandiera sotto cui combatte.
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