lunedì 29 aprile 2013

Prigionieri di una fede


Phil Goss non ha infierito negli ultimi dieci secondi pallone in mano con la possibilità di sparare a canestro ha percorso il campo zizzagando in una sorta di omaggio al destino di una squadra che ieri sera pur priva di talenti e di numeri uno – a proposito che peccato che Johnson non abbia voluto partecipare a questa festa – ha lottato come una furia su ogni pallone cedendo con l’onore delle armi ad una compagine che si trova al terzo posto nella regular season del campionato di basket. E come nella resa dell’Amba Alagi con le Rifles Brigades che alla fine schierate in assetto di guerra tributavano gli onori ai combattenti italiani capitanati dal Principe Amedeo di Savoia duca d’Aosta che erano stati battuti in Africa Orientale. Così ieri sera la squadra di Calvani ha testimoniato la discesa agli inferi della serie GOLD della compagine laniera. 

Quando si dice la nemesi storica dal paradiso della semifinale scudetto all’epilogo sempre contro Roma. Ma c’è un aspetto che vale la pena di sottolineare; il lungo sentitissimo applauso scaturito al suono della sirena vale più di mille parole, un applauso convinto da parte dei molti che quest’anno nonostante i rovesci sul campo hanno comunque voluto manifestare la vicinanza alla società. Gli occhi lucidi dentro e fuori del campo erano parecchi, era una sorta di tributo a un lungo progetto che non è certo morto ma che si deve evolvere stretto da temi come crisi economica e questioni di opportunità. I tanti giovani che calcavano il parquet alcuni dal futuro assicurato, altri dal profilo incerto, guardavano allo spettacolo consumato sulle tribune, e se la curva ha cantato a squarciagola per tutto il match in modo davvero encomiabile, non meno appassionante è stata la passione che emergeva e si vedeva dalla tribune. 

Gli occhi lucidi di Renzi, il pugno battuto all’altezza del cuore da Raspino, l’abbraccio tra Cancellieri e Rochestie. Il capitano in mezzo al campo a fare da chioccia ai giovani e lui il leone sloveno Jurak a calpestare tutti i metri possibili sul campo sono elementi che danno la sensazione di un attaccamento ai colori, alla maglia e a questa città che è encomiabile. Così come i sempre troppo poco citati uomini dello staff che nella buona come nella cattiva sorte son sempre li ad accompagnare il team dalla preparazione all’organizzazione, silenziosi e non chiassosi, ma presenti e attenti. 

Chi scrive è stato contagiato da questo atteggiamento e ieri sera a fine partita non ha potuto che abbandonare i panni del cronista sportivo per vestire quelli più semplici del tifoso fortunato, perché vede le partite da bordo parquet e che orgogliosamente quando va in giro per il Piemonte e spesso per l’Italia quando comunica la sua origine viene spesso abbinato alla squadra di basket. Son proprio lontani i tempi in cui frequentando l’Università a Milano l’origine era sbeffeggiata dall’imprinting di Aiazzone, altri tempi e altre mode si dirà, ma il sottoscritto vorrebbe come molti d’altronde tornare al Palazzetto e ritrovare lo spirito di un tempo. Io ci sono

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