Non c’è un campo, non ci sono porte vere. C’è la terra di nessuno. C’è il fango. E c’è un gioco che tutti conoscono. Nascono partite improvvisate, confuse, senza regole. Il mito parlerà di un 3 a 2 per i tedeschi, ma il punteggio conta poco. Conta il gesto: per qualche ora, la guerra viene sospesa e sostituita da un gioco condiviso. Il pallone diventa una tregua fatta oggetto. Quella parentesi dura poco. Nei mesi successivi la guerra si inasprisce, gli alti comandi vietano ogni fraternizzazione, il fronte si irrigidisce. Ma il pallone non scompare. Cambia significato. Diventa altro.
Nei primi mesi del conflitto, quando gli inglesi avanzano verso le linee nemiche, c’è un racconto che ritorna nelle memorie e nei resoconti orali: un soldato che, invece di lanciare una granata, calcia un pallone fuori dalla trincea. Il gesto è quasi assurdo, e proprio per questo potentissimo. Il pallone rotola davanti ai commilitoni che avanzano. È sfida, è ironia, è coraggio ostentato. È mito, forse. Ma ogni mito nasce da un’esigenza reale: dare un volto umano all’orrore.
Il pallone, così, attraversa la guerra in due modi opposti e complementari. A Natale diventa linguaggio di pace, capace di unire nemici. Nei mesi più duri diventa linguaggio di sfida, un simbolo gettato contro la paura. In entrambi i casi, non è mai solo un gioco. Forse è per questo che, ancora oggi, quando arriva il Boxing Day o quando un campo di futsal si accende in una palestra qualsiasi, sentiamo che lì c’è qualcosa di più. C’è un filo che lega epoche lontane: uomini diversi, lingue diverse, divise diverse, ma lo stesso gesto. Tra mito e storia, tra tregua e battaglia, il pallone continua a parlare. E lo fa con una lingua che, da oltre un secolo, tutti capiscono.
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