Nuremberg è un film che scava nella storia per arrivare molto più in profondità: nella mente umana e nei meccanismi del potere. Ambientato nei mesi che seguono la fine della Seconda guerra mondiale, il racconto prende avvio dall’evento che ne segna la chiusura simbolica, l’epitaffio usato dagli alleati per scrivere la parola fine sul conflitto. Il film però sceglie una strada precisa e coraggiosa: spostare il baricentro dall’aula del tribunale alla stanza dell’interrogatorio. Il cuore è il confronto serrato, quasi claustrofobico, se vogliamo, tra lo psichiatra dell’esercito americano Douglas Kelley e Hermann Göring, interpretato da Russell Crowe. Non è un semplice dialogo: è una lotta senza scampo, un duello psicologico in cui non è mai chiaro chi stia davvero analizzando chi. Il medico cerca risposte nella scienza, nella diagnosi, nella razionalità; il leader nazista risponde con intelligenza, ironia, carisma, ribaltando continuamente il piano del confronto.
Il film mette così alla berlina non solo un uomo, ma un intero sistema. Göring non viene rappresentato come un folle, né come una caricatura del male. Al contrario, appare lucido, seducente, perfettamente consapevole. Ed è proprio questo a rendere Nuremberg inquietante e attuale: il male non nasce dall’irrazionalità, ma può convivere con l’intelligenza, con l’eloquenza, con la capacità di manipolare gli altri. Il film costringe lo spettatore a porsi una domanda scomoda: se il male è “normale”, come lo si riconosce in tempo?
Il viaggio che Nuremberg propone è anche un’esplorazione della manipolazione delle masse. Göring ha giocato con i destini dell’Europa attraverso la parola, il consenso, la propaganda e tutto parte proprio dalle leggi di Norimberga del 1935. Anche sconfitto militarmente, continua a esercitare un potere simbolico, cercando di piegare l’interlocutore, di insinuare dubbi, di relativizzare la responsabilità. Il personaggio dello psichiatra diventa così lo specchio dello spettatore: convinto che comprendere significhi controllare, scopre invece quanto sia fragile il confine tra analisi e fascinazione.
Il film è, a tratti, didascalico, soprattutto quando ricostruisce il contesto storico e giudiziario del processo e della fine dei gerarchi nazisti. Ma questa scelta non è un limite: è parte della sua funzione istruttiva. Nuremberg spiega, chiarisce, accompagna chi guarda dentro un passaggio cruciale della storia del Novecento, senza però rinunciare alla complessità. Quando si concentra sul duello psicologico, il racconto si fa più teso, più oscuro, più universale. Alla fine, Nuremberg non offre consolazioni. Non racconta un male sconfitto una volta per tutte, né un’umanità pacificata dalla giustizia. Racconta invece la necessità di studiare il male per impedirne il ritorno. Norimberga non è solo un processo, ma un monito: capire come uomini comuni possano manipolare altri uomini è l’unico modo per riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi.
È questo il valore più profondo del film: ricordare che la storia non è un archivio chiuso, ma uno specchio. E che guardarlo, anche quando è scomodo, resta un dovere.
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