martedì 23 dicembre 2025

Ci facciamo un selfie - 1839


 

Si restava immobili per minuti interi. La posa non era un dettaglio tecnico, ma una prova di resistenza e di concentrazione. All’alba della fotografia, l’immagine non si “catturava”: si costruiva con pazienza, metodo, intuito. Un gesto lento, quasi solenne, che trasformava ogni scatto in un esperimento. Partendo da questa distanza — tra attesa e immediatezza — che emerge tutta la genialità dell’invenzione. Nel 1839, Robert Cornelius non si limitò a usare una nuova tecnologia: la mise alla prova, la portò oltre. Preparò la lastra, calcolò la luce, scoprì l’obiettivo e corse davanti alla macchina fotografica. Poi rimase fermo, a lungo, sapendo che ogni minimo movimento avrebbe compromesso il risultato. Era insieme fotografo, tecnico e soggetto. In quell’autoritratto c’è il fascino della sperimentazione: l’idea che qualcosa di mai visto prima possa funzionare; la consapevolezza di essere avanti a tutti, in un territorio ancora senza mappe. Cornelius agì dove non esistevano manuali né certezze. Il suo gesto non era ripetibile in serie, non era automatico. Era un rischio calcolato, un’intuizione trasformata in prova concreta. Oggi, all’alba del 2025, quello stesso gesto è diventato ordinario. Un movimento del pollice, uno sguardo allo schermo, un click istantaneo. Nessuna attesa, nessuna posa prolungata, nessuna incertezza tecnica. La fotografia si è fatta veloce, accessibile, quotidiana. E proprio per questo rischia di perdere il peso del gesto che la genera. Riguardare l’immagine del 1839 serve allora a ricordare che il selfie — prima di essere un’abitudine — è stato un atto visionario. Un’idea nata dall’incontro tra ingegno e curiosità. Cambiano i tempi di esposizione, cambiano gli strumenti, ma resta intatto il cuore di quell’atto: guardarsi e decidere come mostrarsi. Un gesto che, da sperimentale e rivoluzionario, è diventato comune.



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