
L’Operazione
Unthinkable, concepita nel 1945 da Winston Churchill, nacque in un
momento in cui la Seconda guerra mondiale non era ancora del tutto
conclusa, ma già si delineava un nuovo equilibrio globale.
Churchill, che aveva guidato la Gran Bretagna nella resistenza contro
Hitler, temeva che il collasso della Germania lasciasse l’Europa
esposta a un’altra egemonia: quella dell’Unione Sovietica.
L’Armata Rossa, forte di milioni di uomini e di un avanzamento
impressionante verso Ovest, controllava ormai Polonia, Stati baltici
e gran parte dell’Europa orientale. Per Churchill, che aveva sempre
diffidato delle intenzioni di Stalin, la rapida imposizione di regimi
filocomunisti in quei Paesi era un segnale inequivocabile. Il suo
timore era che il continente, appena salvato dal nazismo, potesse
cadere sotto un’altra forma di autoritarismo. Ecco perché chiese
ai capi di Stato Maggiore un’analisi “impensabile”: valutare
un’eventuale offensiva occidentale per impedire che l’Europa
venisse dominata da una sola potenza.
A distanza di quasi ottant’anni, quei documenti sembrano parlare
a un continente nuovamente attraversato da tensioni profonde. Il
conflitto russo-ucraino ha riportato la guerra convenzionale nel
cuore dell’Europa, rimettendo in discussione l’ordine di
sicurezza costruito dopo il 1991. L’invasione dell’Ucraina non è
soltanto un’aggressione territoriale: è un messaggio politico
rivolto all’intero continente, un tentativo di ridefinire le sfere
di influenza in un mondo segnato da equilibri instabili. Le
recentissime dichiarazioni di Vladimir Putin, che ha accusato
l’Europa di essere “un vassallo degli Stati Uniti” e di
“alimentare l’escalation militare”, riportano alla luce una
retorica che sembrava sepolta insieme alle rovine della Guerra
Fredda, ma che oggi torna a risuonare con inquietante attualità.
In questo contesto, attualizzare l’Operazione Unthinkable
significa interrogarsi su come l’Europa possa evitare di diventare
di nuovo il terreno di scontro fra potenze. Allora come oggi, la
domanda di fondo è la stessa: il continente può difendere
la propria sicurezza senza farsi trascinare verso uno scontro
diretto? Può farlo mantenendo autonomia politica, capacità
militare e una reale visione strategica, in un mondo in cui la guerra
è tornata a essere uno strumento esplicito di politica estera?
Il parallelo non va forzato: nessuno in Occidente immagina oggi
un’offensiva contro la Russia, come invece Churchill si trovò a
valutare nel 1945. Ma ciò che ritorna è il quadro geopolitico: una
potenza nucleare che utilizza la minaccia militare come leva
politica, una guerra alle porte dell’Unione e un ordine
internazionale che fatica a reggere l’urto delle trasformazioni
globali. In questo scenario, l’Europa appare spesso divisa,
esitante, ancora alla ricerca di una propria identità strategica.
Le dichiarazioni di Putin, unite alla prosecuzione del conflitto
in Ucraina, rappresentano un monito severo: la stabilità europea non
è garantita, e la storia dimostra che le crisi ignorate o
sottovalutate possono trasformarsi in fratture irreversibili. Come
nel 1945, il continente si trova davanti a un bivio. Ma, diversamente
dal passato, la risposta non può essere “impensabile”: deve
essere lucida, unitaria e costruita sulla capacità di coniugare
sicurezza, diplomazia e autonomia strategica. Perché le scelte
compiute nei momenti di incertezza — oggi come allora —
determinano il futuro per generazioni.