Il
23 agosto 1939, mentre l’Europa tratteneva il respiro in attesa
della guerra, a Mosca si firmava un accordo che avrebbe sancito uno
dei più spietati tradimenti della storia moderna. Il Patto
Molotov-Ribbentrop, ufficialmente un semplice trattato di non
aggressione tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista, fu in
realtà un cinico patto segreto di spartizione territoriale.
Dietro
le fotografie ufficiali, le strette di mano forzate e le
dichiarazioni diplomatiche si celava un documento occulto che
ridisegnava l’Europa orientale come se fosse una scacchiera,
ignorando del tutto l’esistenza di nazioni, popoli e diritti.
Nessuno sapeva che allegato al testo principale c’era un protocollo
segreto:
un foglio firmato nella notte, tra Stalin, Molotov e Ribbentrop, che
divideva Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Bessarabia tra le due
potenze, assegnando zone d’influenza come si dividono bottini tra
ladri.
La
Polonia, già sotto pressione tedesca, venne spezzata in due: a ovest
la Germania, a est l’URSS. Estonia, Lettonia e Lituania finirono
nella zona sovietica. La Bessarabia fu promessa a Mosca. L’accordo
prevedeva persino il futuro assalto alla Finlandia. In meno di un
mese, il piano si trasformò in realtà. Il 1° settembre, Hitler
invadeva la Polonia da ovest. Il 17 settembre, Stalin entrava da est.
Il paese fu cancellato dalla carta geografica. Seguì l’occupazione
dei Paesi Baltici, la guerra d’inverno contro la Finlandia,
l’annessione di territori rumeni. Tutto come stabilito. Tutto come
pianificato nell’ombra.
Ma
il mondo non lo sapeva. Per decenni, quel protocollo fu negato,
nascosto, manipolato. Mosca giurava che non esistesse. Chi osava
insinuarne l’esistenza rischiava la censura, l’arresto, l’esilio.
Gli archivi erano sigillati, le verità sepolte sotto tonnellate di
propaganda. Solo con il crollo del regime sovietico, cinquant’anni
dopo, nel 1989, vennero alla luce le prove definitive: copie
originali, testimonianze, confessioni. E in quell’anno simbolico,
proprio il 23 agosto, due milioni di cittadini baltici formarono una
catena umana lunga 600 km, da Vilnius a Tallinn, per denunciare la
menzogna e rivendicare la verità.
Il
24 dicembre 1989, con il mondo che ormai guardava oltre la cortina di
ferro, il Parlamento sovietico fu costretto ad ammettere
ufficialmente l’esistenza del protocollo segreto. Una riga secca,
laconica: «Quel documento non ha mai avuto valore legale.» Ma aveva
già avuto un valore devastante: aveva permesso invasioni,
occupazioni, deportazioni, massacri. Aveva disegnato un’Europa
sotto ricatto, con una linea invisibile tracciata nel sangue.
Il
Patto Molotov-Ribbentrop non fu solo una pagina di diplomazia. Fu una
complicità criminale tra due regimi totalitari che, per convenienza
politica, decisero di fare a pezzi un continente. La sua parte
segreta — per anni negata, occultata, rimossa — è la prova che
la storia si può scrivere con l’inchiostro, ma anche con la
menzogna. E che la verità, quando emerge, lo fa sempre con il
fragore delle catene spezzate.
Oggi,
a distanza di oltre ottant’anni, il fantasma di quel patto non è
del tutto sepolto. Quando la Russia parla di “zone d’influenza”,
invade territori sovrani, nega l’esistenza storica di intere
nazioni — come avvenuto con l’Ucraina — riemerge la stessa
logica che alimentava il protocollo del 1939: decidere confini a
tavolino, calpestando popoli, storie, diritti. Cambiano i nomi, i
leader, le bandiere. Ma la tentazione di ridisegnare il mondo con la
forza e l’inganno resta intatta. La memoria serve esattamente a
questo: a riconoscere, quando riappare, lo stesso veleno sotto nuove
maschere.