
La
guerra ha sempre richiesto al corpo umano più di quanto fosse lecito
chiedere. Resistenza, lucidità, forza, prontezza. E spesso, per
ottenere prestazioni oltre i limiti naturali, si è fatto ricorso a
un alleato silenzioso e inquietante: le droghe. Durante
la Seconda Guerra Mondiale, il loro uso fu massiccio e
sorprendentemente “istituzionalizzato”. In Giappone, ai soldati
veniva somministrato Philopon,
una metanfetamina che annullava il bisogno di dormire e la paura. In
Germania, il Pervitin
– conosciuto anche come “cioccolata dei carri armati” –
veniva distribuito in milioni di compresse per sostenere le truppe
nelle offensive lampo. In pochi anni, queste sostanze divennero parte
integrante della macchina bellica. Non erano più semplici
stimolanti: erano strumenti per potenziare
il soldato,
per renderlo più efficace, più obbediente, meno umano. Ma
sotto l’effetto di queste sostanze, i soldati diventavano sì più
resistenti, ma anche più instabili, più impulsivi, a volte
allucinati. La guerra li voleva efficienti, ma a quale prezzo? Per
molti, quel prezzo è stato un crollo psicologico da cui non si sono
più ripresi
Ma
fu durante la guerra
del Vietnam
che la questione assunse una portata inedita. Tra il 1966 e il 1969,
l’U.S.
Department of Defense distribuì oltre 225 milioni di compresse di
anfetamine,
soprattutto Dexedrina
(dextroamfetamina), ai soldati americani. Lo scopo ufficiale era
mantenerli svegli, concentrati e reattivi nelle lunghe missioni nella
giungla. Le pillole venivano consegnate dai medici militari, su
richiesta o come dotazione di reparto.
Accanto
a questa distribuzione ufficiale,
proliferava un uso parallelo
e non controllato
di altre sostanze: marijuana,
eroina, LSD,
alcol (spesso grappa o whisky portati da casa o reperiti sul campo).
Secondo una stima del Congresso del 1971, oltre
il 15% dei soldati americani in Vietnam era dipendente da eroina.
Non si trattava più solo di migliorare le prestazioni: molti
cercavano un rifugio psicologico per sopravvivere all’assurdità
della guerra, o per disconnettersi dal trauma.
E
oggi? Potremmo pensare che con l’evoluzione tecnologica tutto
questo sia finito. In realtà, l’uso di sostanze psicoattive nel
contesto militare non
solo non è sparito, ma si è raffinato.
Nell’epoca
dei droni e delle guerre asimmetriche, l’obiettivo non è più solo
resistere alla fatica fisica, ma sostenere
la pressione mentale,
gestire
turni estenuanti,
mantenere
lucidità per ore o giorni interi.
Ecco perché alcune sostanze vengono usate — talvolta sotto
controllo medico, talvolta in modo più ambiguo — in diversi
contesti militari moderni.
Il
Modafinil,
ad esempio, è uno dei farmaci più diffusi tra i reparti speciali.
Usato originariamente per trattare la narcolessia, permette di
restare svegli fino a 40-50 ore consecutive senza i cali di
attenzione tipici delle anfetamine. Viene definito spesso una “smart
drug”, e ha trovato applicazione in missioni a lunga durata,
soprattutto in aviazione.
Un
altro stimolante usato è la Dexedrina
(dextroamphetamine), impiegata ancora oggi per aumentare vigilanza e
riflessi. In alcuni casi, i soldati ricevono “go
pills”
(pillole per “andare”) prima delle missioni, e “no-go
pills”
(sedativi o ansiolitici) per calmarsi una volta terminata
l’operazione. È un equilibrio chimico pensato per gestire la
tensione della guerra moderna, dove tutto può succedere in pochi
secondi, ma l’adrenalina resta nel sangue per giorni.
C’è
anche l’aspetto farmacologico legato alla gestione
del trauma.
Sempre più spesso si utilizzano antidepressivi,
ansiolitici e beta-bloccanti
in via preventiva o come protocollo standard in situazioni di stress
estremo. Il rischio, ovviamente, è quello di affidarsi a una
“normalizzazione farmacologica” del conflitto: curare
chimicamente le ferite invisibili, senza affrontare la radice
psicologica.
Il
corpo del soldato, quindi, non è più solo il mezzo attraverso cui
si combatte: è diventato un territorio
da modificare,
da adattare, da migliorare. Ma ogni pillola presa per restare lucidi,
per non dormire, per non sentire la paura… è un passo verso la
disumanizzazione del combattente.