venerdì 31 ottobre 2025

Il VAR e l’incubo della moviola infinita


 



Il VAR, nelle intenzioni dei grandi burattinai del calcio, doveva essere la rivoluzione perfetta. L’arma tecnologica che avrebbe messo fine a ogni discussione, dissolvendo le ombre del sospetto e restituendo alla giustizia sportiva la sua purezza originaria. In teoria, un’idea impeccabile. In pratica, un incubo a colori.

A distanza non di mesi ma di anni, il grido profetico di Aldo Biscardi — “vogliamo la moviola in campo!” — è diventato la nostra ossessione domenicale. Quella che doveva essere la fine delle polemiche è diventata la loro moltiplicazione infinita. Ora le proteste non si fermano al “rigore sì, rigore no”: si dibatte di simulazioni e di scene teatrali, di angolazioni, di fotogrammi, di ginocchi sporgenti e di ascelle in fuorigioco.

Gli arbitri in campo non sono più soli. Alle loro spalle, o meglio sopra le loro teste, un esercito di giacchette fosforescenti, chiuse nelle sale operative di Lissone, analizza ogni tocco, ogni movimento, ogni frammento di partita. Non una palazzina arbitrale, ma un centro di controllo degno della NASA, dove si misura l’ångström che separa la regolarità dall’infamia sportiva.

La geometria ha sostituito l’intuito, il teorema ha preso il posto del fischietto. E così la partita, anziché scorrere nel suo ritmo naturale, diventa una sequenza di pause, attese, sospiri. Al gol non si esulta più: si aspetta la sentenza, come al tribunale dell’’Aia. L’arbitro tocca l’orecchio, il pubblico trattiene il fiato, il tempo si congela. Poi arriva il verdetto, spesso accolto da urla e improperi.

Il bello è che, nonostante tutto questo arsenale di tecnologia, il dubbio resta sempre. Forse perché il calcio, come la vita, non è fatto per essere vivisezionato al millimetro. È un gioco d’istinto, di errori, di emozioni. E invece lo stiamo trasformando in una perizia balistica. Ogni domenica, milioni di tifosi si improvvisano ingegneri ottici, analizzano immagini rallentate, tracciano linee colorate, citano regolamenti con la passione di un penalista. La promessa era di “rendere il calcio più giusto”. Il risultato? Lo abbiamo reso più nevrotico.

E così, mentre a Lissone le antenne del VAR scrutano ogni fotogramma con l’infallibilità della macchina, giù nei bar e sui social si accende la solita canea: c’è chi grida al complotto, chi invoca la Var Room come un oracolo infedele, chi sospetta favoritismi algoritmici. Una tecnologia che doveva pacificare il calcio lo ha reso ancora più divisivo.

A volte viene da pensare che il vero fuorigioco non sia quello di un attaccante con la punta del piede avanti, ma quello di uno sport che ha smarrito la sua spontaneità.

Una sola certezza rimane, tra ironia e rassegnazione: non vorrei abitare a Lissone. Perché, di questo passo, con le antenne che scrutano e i tifosi che ribollono, prima o poi qualcuno rischia di confondere la palazzina del VAR con la sede dell’ingiustizia calcistica universale e dalla presa della Bastiglia a quella dell’Antenna è un attimo.



giovedì 30 ottobre 2025

Fräulein Doktor, la spia che non mise mai piede sul campo


Non sparò mai un colpo, non attraversò notti di tempesta in trench e cappello a tesa larga, e non consegnò microfilm nascosti in una sigaretta. Eppure, Fräulein Doktor fu una delle menti più sottili — e più pericolose — dello spionaggio tedesco nella Prima guerra mondiale. Una spia… senza spiare davvero. O meglio, una direttrice d’orchestra del segreto, che dalla sua scrivania riuscì per mesi a far ballare la flotta britannica come voleva lei. La leggenda racconta che non si sapesse nemmeno il suo vero nome. C’è chi la immagina come un’intellettuale dallo sguardo tagliente dietro occhiali sottili, chi come una femme fatale in abito di seta e rossetto scuro. Forse era semplicemente una donna con un cervello che andava più veloce dei generali. Mentre gli uomini scavavano trincee, lei scavava reti di spie. La sua arma? Il linguaggio commerciale. Altro che codici cifrati e inchiostri simpatici: la Fräulein usava telegrammi che parlavano di... sigari. “Pregasi inviare a Portsmouth 3.000 Corona e 8.000 Avana entro il 10 maggio.” Così recitava uno dei suoi dispacci. Tradotto:
“Il 10 maggio nel porto di Portsmouth ci sono 3 corazzate e 8 incrociatori.” Un colpo di genio. Chi mai avrebbe sospettato che dietro un ordine di sigari si nascondesse la
mappa della marina britannica? Gli agenti olandesi, comparse perfette in questa commedia bellica, si fingevano commercianti neutrali e trasmettevano le informazioni alla centrale tedesca di Amsterdam, con il garbo di chi chiede un buon tabacco. Tutto funzionò alla perfezione… finché qualcuno non si accorse che in piena guerra nessuno importava 8.000 sigari Avana alla settimana. L’intelligence britannica non ci mise molto a unire i puntini: troppi ordini, troppa fretta, troppi sigari per un Paese in trincea. E così la rete della nostra raffinata Fräulein cadde, come un soufflé ben montato ma cotto troppo in fretta. Lei, però, non fu mai catturata. Non mise mai piede sul suolo britannico. Nessun processo, nessuna condanna. Solo un’aura di mistero e un nome che riecheggiava tra i corridoi dell’intelligence come una leggenda: Fräulein Doktor

martedì 28 ottobre 2025

Un martedì da leoni per gli Orange: 3-1 al CDM Futsal e passaggio ai sedicesimi di Coppa di Divisione


 Una vecchia pubblicità recitava “un martedì da leoni”, e mai come questa volta la frase calza a pennello per raccontare l’impresa del gruppo di Patanè, capace di superare per 3-1 il CDM Futsal, formazione che milita in Serie A1, al termine di una gara intensa e combattuta fino all’ultimo secondo. È la Coppa di Divisione, dove tutto può succedere e in una partita secca può accadere l’impensabile. Ma quella degli Orange non è stata una vittoria figlia del caso: è stata il risultato di determinazione, sacrificio e cuore, di una squadra che ha creduto fino in fondo nei propri mezzi.

Nel primo tempo le occasioni non sono mancate da entrambe le parti, ma a rompere l’equilibrio è stato un eurogol di Ibra, una rete di potenza e precisione che ha infiammato il Palabrumar. Nella ripresa gli Orange hanno saputo colpire in modo letale in ripartenza, trovando il raddoppio con Angelino e poi il tris con il Condor Piazza. Il gol della bandiera per gli ospiti è arrivato solo nel finale, complice anche l’espulsione diretta di Vitellaro. Ma il risultato non è mai stato davvero in discussione: gli Orange hanno saputo soffrire, gestire e colpire con lucidità da grande squadra. Con questo successo, la formazione di Patanè prosegue il cammino in Coppa, approdando ai sedicesimi di finale e portando a casa una vittoria che dà fiducia, morale e consapevolezza dei propri mezzi. Una partita dispendiosa, certo, ma anche un segnale forte: questo gruppo ha carattere, gioco e fame. Ora, archiviata la serata magica di Coppa, è tempo di tornare a concentrarsi sul campionato, dove le sfide si preannunciano altrettanto impegnative.

Forza Orange!



domenica 26 ottobre 2025

Un sabato di festa al Palabrumar: gli Orange travolgono il VDL


 

Un sabato di festa al Palabrumar, dove la squadra di Patanè si impone con autorità sul VDL al termine di una partita dominata dall’inizio alla fine. Gli Orange hanno messo in campo un pressing costante, una fame di gol feroce e una concentrazione che non ha lasciato scampo agli avversari.

Eppure, non è stata una partita facile: per portarla sui binari giusti ci è voluta tutta la determinazione del gruppo e la zampata del solito Francalanci, baluardo difensivo e ormai habitué del gol, che ha sbloccato il risultato raccogliendo una delle tante incursioni sotto porta. Da lì, in appena quindici secondi, il dinamico duo Ibra-Piazza ha piazzato un uno-due micidiale, portando la squadra sul 3-0 e mettendo in discesa il match.

Sotto nel punteggio, la formazione di capitan Ongari ha provato a reagire, ma così facendo ha lasciato ampi spazi alle ripartenze fulminanti degli Orange, che hanno chiuso il primo tempo sul 6-0. Da applausi la rete di Alves, talento purissimo con il pallone tra i piedi.

Nella ripresa, nessun calo di tensione: anzi, il furore agonistico dei padroni di casa è rimasto altissimo. A completare la festa ci hanno pensato ancora il Condor Piazza, il magnifico Ibra e il metronomo Montauro, autori di reti di pregevole fattura.

Il VDL, rimasto senza portiere per espulsione, ha tentato la carta del portiere di movimento, ma senza risultati. La rete della bandiera, firmata su rigore da Ongari, è arrivata quando ormai i titoli di coda stavano per calare.

Siamo solo a ottobre, ma gli Orange hanno già messo tanto fieno in cascina e, soprattutto, hanno mostrato solidità, fame e mentalità vincente. Ora all’orizzonte si profilano due sfide impegnative, contro Isola e Cornedo, ma la strada sembra quella giusta.


Orange vs VDL  10 1 (6 0 pt)


venerdì 24 ottobre 2025

Creswick e Prest tutta colpa loro - Sheffield dal 24 ottobre 1857


 

Il 24 ottobre 1857, a Sheffield, nel cuore industriale dell’Inghilterra vittoriana, due ragazzi — Nathaniel Creswick e William Prest — fondarono lo Sheffield Football Club, destinato a entrare nella storia come il club calcistico più antico del mondo.
Non esisteva ancora la Football Association, non c’erano campionati né arbitri, solo la passione per un gioco che stava nascendo tra le scuole e i circoli sportivi del Nord inglese. 
Creswick e Prest, entrambi membri del locale club di cricket, decisero di creare una società dedicata esclusivamente al “football”, codificando un proprio regolamento: le Sheffield Rules. Quelle regole, che prevedevano per esempio il “fair catch”, il calcio d’inizio e il concetto di “corner”, furono la base su cui, nel 1863, la neonata Football Association costruì le prime regole ufficiali del calcio moderno.

Lo Sheffield FC non è mai diventato un gigante sportivo, ma è rimasto un simbolo: un club fondato per il piacere del gioco, per lo spirito di squadra e per la lealtà. Oggi milita nelle serie minori inglesi, ma gode di un riconoscimento unico: nel 2004 la FIFA gli ha conferito il titolo di “Club Patrimonio dell’Umanità del Calcio”, in onore del suo ruolo fondativo. Da oltre un secolo e mezzo, i colori nero e rosso dello Sheffield FC raccontano una storia semplice e nobile: quella di chi, per primo, ha deciso di dare forma a un gioco che sarebbe diventato una passione planetaria.

Nel calcio di oggi, fatto di miliardi e spettacolo, il club di Sheffield resta una memoria vivente di quando bastavano un pallone, un prato e la voglia di giocare.

giovedì 23 ottobre 2025

Breitwieser l'Arsenio Lupin dell'arte


Per oltre sei anni, tra il 1995 e il 2001, un uomo ha sfidato musei, gallerie e chiese di mezza Europa con un’ossessione tanto singolare quanto disarmante: rubare opere d’arte non per venderle, ma per ammirarle. Si chiama Stéphane Breitwieser, alsaziano, nato nel 1971, e la sua è forse la storia più sorprendente mai scritta sull’amore – e sulla dipendenza – per la bellezza. Non era un ladro nel senso classico del termine. Non aveva complici armati, non usava forza o violenza. Visitava piccoli musei, spesso di provincia, dove la sicurezza era minima e i visitatori pochi. Entrava con passo tranquillo, osservava a lungo un dipinto, poi – con calma e precisione – lo staccava dal muro, lo nascondeva sotto il cappotto e se ne andava. Insieme a lui, quasi sempre, c’era la compagna Anne-Catherine Kleinklaus, che lo accompagnava nei viaggi e faceva da palo durante i furti.

In poco più di un lustro, Breitwieser ha sottratto oltre 300 opere d’arte da musei in Francia, Belgio, Germania, Svizzera, Olanda e Italia. Il valore complessivo del bottino è stato stimato in oltre un miliardo e mezzo di euro. Ma nessuna di quelle opere è mai finita sul mercato nero.
Tutto era conservato nella casa della madre, in Alsazia, dove una camera da letto si era trasformata in un piccolo museo personale: quadri di Lucas Cranach, miniature del Cinquecento, argenti, strumenti musicali, cornici dorate. Breitwieser trascorreva le giornate in quella stanza, contemplando la collezione come un curatore privato, convinto di vivere un rapporto esclusivo con la bellezza.

Il suo è stato definito un caso di “cleptomania estetica”: un impulso non legato al denaro, ma al desiderio di possedere ciò che si ama. In un’intervista, anni dopo, ha dichiarato: “Non rubavo per profitto, ma per passione. Ogni opera mi chiamava. Dovevo averla vicino, vederla ogni giorno.”

Tutto crollò nel novembre 2001, quando venne arrestato a Lucerna, in Svizzera, dopo un furto andato storto. Durante la sua detenzione, la madre, temendo una perquisizione, distrusse gran parte delle opere. Ne tagliò molte, ne bruciò altre, ne gettò alcune in un canale.
Più di
cento capolavori andarono perduti per sempre: un disastro culturale senza precedenti. Quando Stéphane lo seppe, reagì con incredulità e disperazione. Il suo “museo segreto”, il tempio privato della sua ossessione, era svanito nel nulla.

Condannato a tre anni di prigione in Svizzera, poi a ulteriori pene in Francia, Breitwieser non smise di occuparsi d’arte. Nel 2006 pubblicò l’autobiografia Confessions d’un Voleur d’Art, in cui racconta la sua ossessione come una forma di amore assoluto: una tensione tra desiderio estetico e colpa, tra il culto della bellezza e la trasgressione del possesso.

Ma l’ossessione, come spesso accade, non guarì. Nel 2019 la polizia francese trovò nella sua abitazione decine di nuovi oggetti rubati – dipinti, sculture, argenti – segno che il richiamo dell’arte continuava a dominare la sua vita. Oggi vive in libertà vigilata, osservato con la stessa curiosità e diffidenza che si riserva ai personaggi più complessi: vittima e carnefice, romantico e ladro, appassionato e distruttore.

La vicenda di Stéphane Breitwieser resta una parabola contemporanea sul confine sottile tra amore e ossessione, tra ammirazione e possesso. La sua storia interroga il nostro rapporto con la bellezza: possiamo davvero “possedere” ciò che amiamo, o nel tentativo di farlo finiamo per distruggerlo?
Nel caso di Breitwieser, la risposta è tragica e definitiva: il ladro che rubava per custodire l’arte finì per perderla per sempre.

mercoledì 22 ottobre 2025

L'arte di parlare bene


 

Ci sono cose che non invecchiano mai. Una di queste è l’arte del parlare. Non importa quanti secoli passino: quando si tratta di convincere, raccontare, toccare chi ascolta, i principi restano sempre gli stessi. Lo sapeva bene Cicerone, che ha lasciato in eredità cinque passaggi fondamentali per costruire un discorso efficace. Non regole rigide, ma un metodo, quasi una bussola.

Si comincia con l’Inventio, il momento in cui le idee prendono forma. È la fase della ricerca, del pensiero che si allarga, che esplora. Lì l’oratore si fa domande, cerca argomenti, sceglie cosa dire. È il cuore del discorso: se non c’è sostanza, la parola si svuota. Poi viene la Dispositio, e qui la riflessione diventa costruzione. Le idee non possono restare sparse: vanno messe in ordine, con cura. Ogni parte del discorso ha il suo posto, come in una sinfonia. Chi ascolta deve sentirsi accompagnato, non trascinato. A quel punto entra in gioco l’Elocutio, la scelta delle parole. E non è solo questione di bellezza. Lo stile è sostanza: dire qualcosa in un modo o in un altro cambia tutto. Un linguaggio troppo alto allontana, uno troppo semplice banalizza. L’equilibrio è tutto. Poi c’è la Memoria, che non è solo ricordare, ma assimilare. Quando conosci davvero ciò che vuoi dire, puoi farlo tuo. L’oratore che padroneggia il discorso è libero: può adattarsi, rispondere, sentire il pubblico. Le parole gli vengono naturali, come il respiro. E infine, l’Actio: la presenza, la voce, i gesti. È il momento in cui il discorso diventa vivo. Qui non basta sapere, bisogna saper stare. Il corpo parla quanto la lingua. È qui che il pensiero arriva al pubblico, e si trasforma in emozione, in coinvolgimento, in persuasione. Cicerone lo aveva capito: parlare bene non è improvvisare, né recitare. È pensare con chiarezza, scegliere con attenzione, e dire con autenticità. Le sue cinque fasi sono ancora oggi una guida per chiunque voglia essere ascoltato davvero. Perché il buon parlare è, prima di tutto, buon pensare.

domenica 19 ottobre 2025

Vittoria e primato: l'acuto dell'Orange in trasferta


 

Ci sono partite che non indirizzano una stagione solo per il risultato, ma per la grinta, l’atteggiamento e la voglia di lottare su ogni pallone. Quella andata in scena al Palalanzi contro l’Altovicentino è stata proprio una di queste Squadra tosta, quella veneta, ben organizzata e con ottime individualità – su tutte Portinari – ma i ragazzi di Patanè sono scesi in campo con la garra giusta, determinati, compatti, e nonostante alcune assenze pesanti, hanno saputo imporre il ritmo sin dalle prime battute. Per due volte gli astigiani sono passati in vantaggio: prima con il “CondorPiazza, poi con il “CannibaleItria – bentornato! – ma l’Altovicentino ha risposto colpo su colpo, prima con Moscoso, poi con Portinari, sempre letale sotto porta. Nel secondo tempo Vitellaro e compagni hanno alzato ulteriormente l’intensità.
Pressing a tutto campo, ritmo altissimo e occasioni in serie, fino al momento decisivo. A pochi minuti dalla fine,
lui, il capitano, Ibra, ha trovato la giocata giusta al momento giusto, siglando il 3-2 che ha di fatto indirizzato il match. Il tentativo finale dei veneti con il portiere di movimento non ha cambiato l’inerzia del match: anzi, è stato Amico a mettersi in mostra con un paio di interventi decisivi che hanno blindato il risultato.L’urlo liberatorio al triplice fischio dice tutto: questa è una vittoria pesante, che va oltre la classifica, e che certifica la forza mentale di un gruppo in crescita. Gli astigiani volano così in testa alla classifica, in coabitazione con il Cornedo, e si preparano a un ottobre elettrico con due derby piemontesi all’orizzonte: prima il Val d’Lans, poi Isola. Sarà un mese tutto da vivere.

Alto vicentino vs Orange 2 - 3 (1 -1 pt)

venerdì 17 ottobre 2025

Altro che Patton Gneo Domizio Corbulone il generale che riformò la disciplina militare


 

Nato in una famiglia senatoria, Corbulone fu uno dei più brillanti e rispettati generali dell’Impero Romano nel I secolo d.C. La sua carriera militare si svolse sotto gli imperatori Tiberio, Claudio e Nerone, attraversando alcune delle fasi più delicate dell’espansione e del mantenimento dei confini orientali dell’Impero. Comandante in Germania Inferiore, impose disciplina e ordine in un momento di grande instabilità (elimino il lusso tra i soldati, introdusse la vita da campo dura anche in tempo di pace, obbligo i legionari a costruire trinceee e a marciare quotidianamente, comminando pene severe per chi trasgrediva). Ma fu in Oriente, nella difficile contesa per l’Armenia contesa con l’Impero dei Parti, che Corbulone dimostrò la sua grandezza: non solo conquistò territori e riportò vittorie, ma lo fece con intelligenza strategica, moderazione e rispetto per il nemico.

Roma celebrava le sue imprese, i soldati lo amavano, ma il suo crescente prestigio divenne una minaccia per chi sedeva sul trono. Nerone, insicuro e ossessionato dai complotti, ordinò il suo suicidio nel 67 d.C. Corbulone, convocato in Grecia, obbedì senza fuggire, senza opporsi. Si trafisse con la spada pronunciando una sola parola: "Axios." Una dichiarazione di consapevolezza e di dignità. Non una resa, ma un atto finale di onore romano, più potente di qualsiasi vendetta.

Viareggio Lucchese maggio 1920 derby infuocato e con disordini


Nel 1920 non c’erano i social, né i forum, né le dirette polemiche dopo le partite. Ci si insultava in faccia. Ci si provocava di persona, negli stadi, nelle piazze, nei bar. E quando il clima era già carico di tensioni sociali e politiche, bastava poco perché una partita diventasse un pretesto.

Era il caso di Viareggio-Lucchese, maggio 1920. Un derby acceso, certo, ma inserito in un’Italia appena uscita dalla guerra. Un’Italia divisa, stanca, infiammata. Il cosiddetto “Biennio rosso” stava esplodendo: scioperi, occupazioni, scontri tra socialisti e forze dell’ordine. Viareggio era una città fortemente politicizzata. E quella partita arrivava dopo lamentele per presunti brogli arbitrali all’andata, accuse reciproche, tensione crescente.

Lo stadio, quel giorno, era pieno. C’erano tifosi, certo. Ma anche militanti, operai, reduci, carabinieri. La partita finì, ma la rabbia restò. Scoppiò il caos: invasione di campo, disordini, cariche. Un carabiniere sparò. Il proiettile colpì Augusto Morganti, guardalinee viareggino, ex ufficiale. Morì sul colpo, colpito in volto. Aveva 25 anni. Quella morte non fu solo un fatto di cronaca. Fu, probabilmente, il primo caso di vittima legata al calcio italiano. Ma anche il caso di una violenza che passava dal verbale al fisico e che di li a poco spalancò il paese nel baratro di una dittatura. E il calcio, da sport, diventava specchio di un Paese ancora troppo vicino alla guerra — e troppo lontano dalla pace.


martedì 14 ottobre 2025

Ciro il Grande ? Un monarca inclusivo sicuri che il paragone calzi ?


 

La storia, questa materia che riguarda il nostro passato, è spesso oggetto di reinterpretazioni interessate. Tutti, sopratutto i potenti, vi guardano sperando di trovare un novello Tacito che tessa le lodi dei contemporanei. E se non si riesce a trovare la tela giusta, allora si scomodano i fasti del passato, rimembrando monarchi, fior di letterati e nobil homini a cui riferirsi, con la speranza che un po’ del loro splendore riverberi sul presente. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è stato Donald Trump, accolto in Medio Oriente sotto le stimmate di Ciro il Grande, così recitano i cartelli che lo accolgono, — un sassanide per il moderno Creso americano. Incensato per aver, si spera, concluso una guerra, che come ha sempre ammiccato Woody Allen, parlando del conflitto israelo-palestinese, dovrebbe essere archiviata sotto la voce "fantascienza”, ma speriamo di sbagliarci.

Ora, Ciro il Grande fondatore dell’Impero Persiano, quello che poi si scontrò con la Grecia di Leonida e Temistocle. Fu un discreto conquistatore, favorito anche da un periodo povero di veri sparring partner. Ma va detto che Ciro il Grande è certamente uno dei sovrani antichi con un’immagine più “benevola” rispetto ad altri tiranni del suo tempo. Il suo governo è accostato alla tolleranza, al rispetto per le religioni e culture conquistate, alla restaurazione di luoghi di culto, e al rimpatrio di esuli, anche per non gravare sulle spalle dello Stato. Tuttavia, non possiamo dire che governasse come un moderno democratico o che applicasse “diritti umani” come li intendiamo oggi: piuttosto, operava secondo le logiche del suo tempo, con una visione relativamente più inclusiva, che è stata poi idealizzata nei secoli.

Insomma, la storia viene spesso piegata alle esigenze della narrazione presente. E quando non si trovano soluzioni nel qui e ora, si va a cercare nel mito, nella simbologia, nel potere evocativo di figure che, per quanto grandi, sono figlie del loro tempo. Ma alla fine, anche Ciro — conquistatore tollerante, ma pur sempre re assoluto — probabilmente avrebbe guardato un tweet con la stessa diffidenza con cui osservava un presagio scritto nel cielo.


domenica 12 ottobre 2025

Orange: il campionato parte bene con il Villorba 8 a 3 finale


 

Il miglior modo per iniziare il campionato non poteva esserci: una partita approcciata nel modo giusto e poi condotta con lucidità fino al netto 8-3 finale. Ma attenzione, il punteggio non deve trarre in inganno: il Villorba non è stato un avversario arrendevole, tutt’altro. Ha difeso con ordine e ha messo in difficoltà il quintetto di Patanè nella ripresa, sfruttando con coraggio la carta del portiere di movimento.

Pronti, via — e nei primi tre minuti è subito assalto orange: a sbloccare la partita ci pensa El Peluca Vitellaro, seguito a ruota dal capitano Ibra, che si unisce subito alla cooperativa del gol. Il time-out richiesto dai veneti arriva immediatamente, nel tentativo di riordinare le idee e riorganizzare la squadra.

Il primo tempo vede raramente il Villorba affacciarsi con pericolosità, grazie anche alla grande concentrazione dei padroni di casa. La sassata di Montauro sigilla la frazione, anche se c’è preoccupazione per la caviglia di Merlo, uscito dopo un duro contrasto.

Nella ripresa il copione non cambia. Angelino sfrutta un tap-in fortunoso, e Vitellaro si trasforma in geometra, disegnando una parabola perfetta dalla propria area che sorprende il portiere avversario fuori dai pali.

A dieci minuti dalla fine, il tecnico veneto si gioca il portiere di movimento, una mossa che porta a qualche risultato grazie alle incursioni di Benfassi, le cui sfuriate dall’angolo si rivelano efficaci. Ma lasciare la porta sguarnita ha il suo prezzo: in contropiede gli orange dilagano nel finale, con le reti di bomber Condor, Piazza, Curallo e ancora Montauro – ormai un vero e proprio algoritmo del gol.

Una bella prova, dunque, ma che non deve far adagiare sugli allori. Settimana prossima trasferta veneta, poi doppio derby: il campionato entra nel vivo.

Il cambio di passo alla fine della guerra: il discorso di canzo


Il discorso di Pietro Nenni a Canzo nel 1946 rappresenta uno dei momenti emblematici della ricostruzione morale e politica dell’Italia nel dopoguerra. In un Paese ancora profondamente segnato dalla tragedia del fascismo e dalle macerie del conflitto, Nenni si presenta come voce forte del socialismo democratico, riaffermando i valori della libertà, della giustizia sociale e della sovranità popolare. Il suo intervento è impregnato di speranza e, al tempo stesso, di determinazione: l’Italia deve rinascere su basi nuove, lasciandosi alle spalle il passato autoritario.

A Canzo, Nenni parla a un’Italia stanca ma pronta al cambiamento, e lancia un appello all’unità delle forze popolari, chiedendo che il socialismo sia il motore della rinascita nazionale. Centrale è il suo richiamo alla responsabilità civile dei cittadini, soprattutto in vista del referendum istituzionale e della nascita della Repubblica. Il discorso, intriso di passione e visione politica, esprime fiducia nel popolo italiano e nella possibilità di costruire un Paese più giusto ed equo.

«O la Repubblica o il caos. Non possiamo costruire la democrazia sulle fondamenta marce della monarchia.» — Pietro Nenni

In quel momento storico, le sue parole si fanno eco di una promessa: quella di un’Italia nuova, libera e democratica.



venerdì 3 ottobre 2025

STRATEGIKOS l'arte militare romana spiegata da Onasandro


Avere una biblioteca ben fornita, anche sul piano militare, è una vera ricchezza.
L'Istituto Storico di Varallo, in questo senso, custodisce
vere e proprie chicche, alcune delle quali dedicate al mondo romano, che meritano di essere scoperte e valorizzate. Grazie a queste letture ho avuto l'opportunità di approfondire testi anche in lingua inglese (a proposito: gli storici inglesi sono davvero bravi, soprattutto per la loro capacità di sintesi e analisi), e di imbattermi in episodi poco noti ma ricchi di spunti. Sono storie che non conoscevo, ma che potrebbero rivelarsi utili e stimolanti per i prossimi lavori da scrivere. Da qui nasce il desiderio di dedicarmi allo studio di un grande conflitto antico, una guerra che ha cambiato i destini del Mediterraneo e segnato il rapporto tra due potenze mondiali dell’epoca: Roma e Cartagine. In una parola: le Guerre Puniche.

Per affrontare questo tema complesso, è utile anche capire come veniva concepito il comando militare nel mondo antico. Un testo fondamentale in questo senso è il Strategikos di Onasandro, un filosofo platonico vissuto nel I secolo d.C., che scrisse un trattato non tanto tecnico quanto etico e politico, dedicato al generale ideale. Strategikos non è un manuale tecnico di guerra, ma un trattato morale e politico sul ruolo del generale ideale. Onasandro sostiene che il comandante debba essere virtuoso, giusto, saggio e coraggioso, non solo abile nelle armi. La moralità del leader è centrale: deve essere d’esempio ai soldati, moderato nel comando, e mai crudele senza motivo.
Importante è la
disciplina, mantenuta con rispetto e giusta misura, non con paura o violenza gratuita. Il generale deve curare l’unità dell’esercito, evitare invidie e favoritismi, e ascoltare i consiglieri senza mostrarsi debole. La preghiera agli dèi prima della battaglia è essenziale, segno di umiltà e consapevolezza del proprio limite. Va evitato il combattimento inutile: meglio vincere con l’astuzia che con lo spargimento di sangue. Deve saper mantenere l’ordine anche in tempo di pace, agendo da custode dell’equilibrio civile. Il comportamento in battaglia deve essere leale, strategico e dignitoso, anche verso il nemico. In sintesi propone un modello di comandante-filosofo, guida morale oltre che militare.




domenica 28 settembre 2025

Coppa di divisione battaglia vera e goal all'ultimo respiro


Il futsal ad Asti è un dogma. È passione, è voglia di giocare, è desiderio di combattere. In campo, i giocatori si conoscono tutti. E anche se si tratta “solo” della Coppa della Divisione e non del campionato, la voglia di ben figurare è patrimonio comune. Quella andata in scena nel cuore del settembre astigiano non è certo una partita qualsiasi. Le squadre si affrontano a viso aperto, in maniera intensa e ruvida. Non c’è spazio per troppa tattica, ma per lo scontro vero, giocato sul filo dei nervi e dei contrasti.

Il match si sblocca grazie a Francalanci, autentico The Wall della retroguardia ma anche decisivo in zona gol: è lui a firmare l’1-0 per gli Orange. Il pareggio arriva su una sfortunata autorete di Angelino, che riporta la sfida in equilibrio, dopo che Amico para anche un tiro di rigore.

La gara resta vibrante, intensa, combattuta su ogni pallone. Il copione resta incerto fino a 38 secondi dalla fine, quando Torino trova il gol del sorpasso, punendo una leggerezza e mettendo una seria ipoteca sul passaggio del turno.

Ma il futsal non è mai finito finché non suona la sirena. E a dieci secondi dalla fine, ecco il colpo di scena: Piazza, bomber vero, in versione Condor, sfrutta il portiere di movimento e firma il più facile dei tap-in per il 2-2 finale.

Un pareggio tosto, giusto, spettacolare, che regala emozioni fino all’ultimo secondo.
A qualificarsi è Patanè, ma il futsal astigiano può sorridere: se questo è l’antipasto, il campionato sarà tutto tranne che una passeggiata per chi affronterà queste squadre

mercoledì 24 settembre 2025

l'uomo che veniva dal freddo Anders Lassen


 Era nato in Danimarca, in una casa borghese, con un futuro già scritto tra le comodità e i rituali della buona società. Ma Anders Lassen non aveva mai amato troppo le strade già battute. Era alto, riservato, con uno sguardo che non cercava attenzione, ma osservava. Quando la guerra avvolse l’Europa, lui non rimase fermo.

Aveva poco più di vent’anni quando lasciò la Danimarca per arruolarsi con gli inglesi. Il suo Paese era occupato, e molti avevano scelto di non reagire. Lui no. Anders si unì alle forze speciali britanniche, divenne commando, poi entrò nella temuta e rispettata Special Boat Section, gli uomini d’élite che agivano di notte, nell’ombra, tra mare e costa. Nessuna medaglia, nessun clamore. Solo missioni, quasi sempre impossibili.

Combatté nei Balcani, in Grecia, tra le isole dell’Egeo. Sempre silenzioso, sempre in prima linea. I rapporti parlavano di lui come di un soldato dal sangue freddo e dal coraggio implacabile. Aveva un modo tutto suo di affrontare la paura: ci camminava dentro.

Fu così anche in Italia, nei primi mesi del 1945, quando il nord del Paese era ancora sotto il controllo tedesco. Le forze alleate avanzavano, ma il terreno era difficile, soprattutto nella zona di Comacchio, tra canali, valli e fortificazioni nascoste. A Lassen venne affidata una missione precisa: neutralizzare un avamposto tedesco e aprire la strada per le truppe in arrivo.

All’alba del 9 aprile, Anders e i suoi uomini sbarcarono tra le nebbie basse della laguna. Lui era in testa. Le mitragliatrici nemiche iniziarono subito a sparare. Venne ferito. Avrebbe potuto fermarsi, cercare riparo. Invece continuò ad avanzare, trascinandosi in avanti, guidando i suoi compagni come se nulla lo potesse fermare.

Raggiunse la postazione nemica. Morì lì, nel silenzio dopo l’assalto, sapendo che la missione era compiuta. I suoi uomini erano salvi. La via era aperta.

lunedì 22 settembre 2025

La diagnosi fatale di Betcherev - la discrezione ti salva la vita


 

Nel dicembre del 1927, la Russia sovietica era già profondamente segnata dall’ombra crescente di Iosif Stalin. Il potere si stava concentrando nelle sue mani con una rapidità feroce, e ogni voce fuori dal coro cominciava a diventare pericolosa. In questo contesto cupo, Vladimir Michajlovič Bechterev, uno dei più rispettati neuropsichiatri dell’epoca, ricevette un improvviso ordine: recarsi a Mosca per visitare un paziente molto particolare.

Bechterev, scienziato razionale, abituato a parlare con franchezza e osservare con rigore, era consapevole dei rischi impliciti in quell’invito. Sapeva che nessuna convocazione proveniente dal vertice del potere era priva di conseguenze. Eppure partì, fedele alla sua vocazione scientifica più che al buon senso politico.

Il paziente che lo attendeva era Stalin in persona. Il dittatore soffriva di una rigidità alla mano sinistra — forse il sintomo di un disturbo neurologico più profondo — ma ciò che colpì maggiormente Bechterev non fu la mano, bensì l’espressione, l’atteggiamento, l’intera presenza di quell’uomo. Durante l’esame clinico, Bechterev colse segnali evidenti di paranoia, rigidità psichica, diffidenza patologica. Stalin non era solo un uomo con un problema fisico: era, secondo il giudizio clinico del medico, un caso psichiatrico.

Rientrato a Leningrado, Bechterev, senza riserve, condivise le sue impressioni con alcuni colleghi. Fece una battuta amara, quasi ironica, che però si rivelò letale: disse di aver appena esaminato “un paranoico con una mano secca” — e quel paranoico era Stalin. In un regime dove anche il sospetto valeva una condanna, la frase fu riferita, registrata, archiviata nei meccanismi invisibili della repressione.

Il giorno seguente, Bechterev morì improvvisamente. La causa ufficiale fu un attacco cardiaco, ma le circostanze furono talmente sospette da far nascere, già allora, il sospetto di un omicidio. Non vi fu autopsia. Il suo nome cominciò lentamente a scomparire dai testi ufficiali, dalle citazioni scientifiche, dalla memoria pubblica. La sua morte, come quella di tanti altri intellettuali negli anni successivi, fu uno dei primi segnali di ciò che stava per accadere: la trasformazione definitiva del potere in culto, e del dissenso in crimine.

Bechterev pagò con la vita la propria onestà intellettuale. Non fu ucciso per un gesto politico, ma per aver detto la verità. Una verità clinica, osservata scientificamente, eppure troppo pericolosa da pronunciare ad alta voce. La sua diagnosi non fu scritta su carta, ma si diffuse per via orale tra colleghi e allievi, diventando leggenda accademica: un ammonimento sulla fine che spetta a chi, sotto un regime totalitario, osa guardare il potere con occhi lucidi e dirne il vero volto.

Così morì uno dei padri della neuropsichiatria russa, non per un errore medico, ma per un eccesso di lucidità.


giovedì 18 settembre 2025

“I have not yet begun to fight!” — Lo spirito di John Paul Jones, tra storia e cinema


I have not yet begun to fight!”
(
Non ho ancora iniziato a combattere!)

Questa frase, pronunciata nel pieno di una battaglia navale apparentemente persa, è passata alla storia come simbolo di sfida, coraggio e resistenza. Le parole sono di John Paul Jones, leggendario comandante della Marina americana, protagonista di una delle più straordinarie imprese della Guerra d’Indipendenza contro il Regno Unito.

Nel 1779, al comando della Bonhomme Richard, Jones affrontò in mare aperto la più potente HMS Serapis. La sua nave era in fiamme, le perdite gravi, la resa sembrava inevitabile. Ma alla richiesta britannica di arrendersi, rispose con quella frase immortale. E riuscì, contro ogni pronostico, a vincere lo scontro e catturare la nave nemica.

Quello spirito indomito, capace di sfidare la sconfitta con dignità e audacia, riemerge anche nella cultura popolare. Nel film Battleship (2012), la Marina statunitense fronteggia un’invasione aliena. Una delle prime navi a rispondere all’attacco è proprio la USS John Paul Jones: un cacciatorpediniere moderno che porta il suo nome e ne onora il lascito. Come il suo omonimo, anche questa nave non si arrende, combatte fino all’ultimo, simbolo di una tradizione che non conosce resa.

John Paul Jones non fu solo un eroe militare, ma un precursore della Marina americana, un uomo che credeva nella libertà, nella disciplina e nella forza del mare come strumento di indipendenza. La sua vita fu breve, ma la sua leggenda è ancora viva ogni volta che qualcuno, di fronte alla sconfitta, sceglie di non mollare.


Il VAR e l’incubo della moviola infinita

  Il VAR, nelle intenzioni dei grandi burattinai del calcio, doveva essere la rivoluzione perfetta. L’arma tecnologica che avrebbe messo fin...