domenica 14 settembre 2025

Coppa di Divisione buona la prima 6 a 0 all'Itar


 

Ci siamo: inizia una nuova stagione da vivere con passione a bordo parquet!
Nella passata stagione siamo arrivati a un soffio dal realizzare il sogno del ritorno in Serie A2 Élite, un traguardo sfumato davvero per un’inezia. Ma ciò che resta — ed è ancora più importante — è la crescita di un gruppo giovane e determinato, e la conferma di una filosofia societaria solida, che non cambia.
Durante l’estate ci sono stati alcuni cambiamenti: qualche rientro, qualche cessione, ma lo spirito Orange è sempre vivo e ben presente. La prima uscita ufficiale, nella Coppa di Divisione, non ci ha portato lontano: Fossano è dietro l’angolo. Ma nel settembre astigiano, che sa sempre regalare il lato più genuino e spontaneo del nostro territorio, è arrivata una vittoria preziosa, portatrice di ottime e confortanti indicazioni in vista del proseguo della stagione. Non è tanto il rotondo 6-0 ottenuto contro una buona squadra come l’Itar a far notizia, quanto il modo in cui è maturato il risultato. Per la cronaca: tripletta di Ibra, gol di Vitellaro, Angelino e Caracciolo. Tra quindici giorni ci si rivede in casa, contro Isola, per l’ultima amichevole prima del campionato. L’Orange c’è Ci aspetta un anno lungo, impegnativo, ma ricco di promesse.



mercoledì 10 settembre 2025

Guerra all'est il caso polacco


 

Russia vs Polonia non è una novità dell’ultima ora ma prima i polacchi e poi i russi sono sempre stati l’uno contro l’altro per il dominio delle terra che di volta in volta hanno fatto parte dell’impero tedesco e dell’urss poi. Nel corso dei secoli diversi gli scontri con i polacchi che cercarono indipendenza e autonomia. La battaglia di Racławice ebbe luogo il 4 aprile 1794 vicino al villaggio omonimo, nel sud della Polonia, durante l’Insurrezione di Kościuszko, una rivolta patriottica contro la dominazione russa e prussiana. Fu uno degli scontri iniziali dell’insurrezione, e vide opporsi l’esercito ribelle polacco, comandato da Tadeusz Kościuszko, alle truppe dell’Impero Russo. Nonostante i polacchi fossero numericamente inferiori e meno equipaggiati, ottennero una vittoria tattica significativa, grazie anche al coraggio dei contadini armati di falci, noti come kosynierzy. Kościuszko impiegò con abilità la sua esperienza militare (maturata anche nella guerra d’indipendenza americana) per sorprendere i russi, rafforzando il morale del popolo polacco e dando slancio alla ribellione. Durante la battaglia, si distinse il gesto eroico di Bartosz Głowacki, un contadino che riuscì a conquistare un cannone nemico: divenne simbolo del coinvolgimento popolare nella lotta. Anche se la vittoria non fu decisiva sul piano strategico, Racławice divenne un simbolo della resistenza polacca e dell’unità tra nobili e popolo. È ancora oggi ricordata come un momento di grande orgoglio nazionale, celebrato anche in arte (celebre il panorama di Racławice a Breslavia) e cultura.

lunedì 8 settembre 2025

9 settembre 1942 Allarme nell Oregon i giapponesi bombardano


Ve lo ricordate “1941 – Allarme a Hollywood”? Quella commedia surreale di Steven Spielberg con John Belushi nei panni dell’aviatore che sorvola la California in preda al delirio per un’invasione giapponese mai avvenuta? Ebbene, qualcosa di simile successe davvero. Non a Hollywood, ma in Oregon, e non nella finzione cinematografica, ma nella realtà della Seconda guerra mondiale, precisamente il 9 settembre 1942.

Quel giorno, un sottomarino giapponese emerse al largo della costa dell’Oregon, aprì il suo hangar interno e fece decollare un piccolo idrovolante, il cui pilota – Nobuo Fujita – sorvolò il territorio americano e sganciò due bombe incendiarie nella foresta vicino a Brookings, nel tentativo di scatenare incendi devastanti e colpire il morale della popolazione americana. Non funzionò. Il terreno era umido, l'incendio fu domato quasi subito. Ma la storia resta: fu l’unico bombardamento aereo sul suolo continentale degli Stati Uniti durante la guerra.

E, a differenza del film, questa storia ha avuto un finale di pace: anni dopo, il pilota giapponese tornò a Brookings, donò la sua katana alla città, piantò un albero della riconciliazione... e chiese che le sue ceneri, nell’atto della sua dipartita, venissero sparse proprio lì, dove aveva tentato di portare la guerra.

domenica 7 settembre 2025

Hic sunt leones - Don Bosco vince il Palio 2025 (quello del 750)

Qui ci sono i leoni. Così si legge sul drappo che sventola per il rione Don Bosco. Un’espressione antica, che un tempo veniva usata sulle mappe per indicare territori sconosciuti, misteriosi, pericolosi. Ma qui, in questa parte di città, non ci sono leoni nel senso classico. Qui c’è qualcosa di diverso. C’è un cavallo che vola, e lo fa sospinto dalle ali dell’entusiasmo, della passione e, soprattutto, dell’appartenenza. Giovanni Atzeni è uno che di Palii ne ha vinti diversi, ma l’emozione di riportarlo a Don Bosco dopo 29 anni la vedi nel suo sorriso e nella sua pacatezza a fine gara. Per Tittia il Palio non è solo una gara, è un rituale, un modo di vivere, un mantra che ritorna, anno dopo anno, curva dopo curva, fino all’arrivo.

Il Palio è un drappo, certo. Un pezzo di stoffa, colorato, dipinto con arte, che si porta a casa come simbolo della vittoria. Ma è anche molto di più. È un segno d’onore, è l’anima di una città che si sfida, si misura e si riconosce. Chi vince non porta via solo un trofeo. Porta con sé l’orgoglio del quartiere, il cuore della gente.

Tutto questo nasce da lontano, da un tempo in cui i grandi imperi erano crollati e gli Stati nazionali ancora non esistevano. Era il tempo del Medioevo, dei comuni, delle contrade, delle piazze vive e dei mestieri tramandati di padre in figlio. In quel mondo, fatto di artigiani, contadini, mercanti e vicinati, le corse come questa servivano a celebrare l’identità, a marcare il territorio, a ricordare che ogni borgo aveva un’anima, un volto, una voce.

E ancora oggi è così. Quando corre il cavallo, non è solo lui a correre. Corre il rione intero. Corrono le emozioni, i sacrifici, le notti passate a preparare ogni dettaglio. Corrono le storie, i volti, le mani che alzano striscioni, che vestono le strade, che stringono altre mani prima del via.

E quando quel cavallo vola, tutti volano con lui.

giovedì 4 settembre 2025

Il Lead Lease Act il vero vincitore della seconda guerra mondiale

 

Nel 2025 ricorrono gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, e, come da tradizione, Russia e Cina celebrano la vittoria con grande enfasi. Parate militari, discorsi solenni, orgoglio nazionale: due superpotenze che si autorappresentano come artefici fondamentali del trionfo contro il nazismo e il militarismo giapponese. Una narrazione forte che ha radici profonde nella memoria collettiva di entrambi i Paesi. Eppure, in mezzo a tutto questo apparato simbolico e retorico, c’è una parte della storia che tende a essere taciuta, o quantomeno ridotta al minimo: il ruolo decisivo giocato dagli Stati Uniti d’America nel sostenere — con armi, mezzi, cibo, tecnologie e denaro — i loro futuri alleati, ben prima di entrare in guerra. Senza quel sostegno, è difficile immaginare che la Russia (allora URSS) e la Cina avrebbero potuto reggere l’urto di Hitler e dell’Impero giapponese.

La chiave di tutto fu una legge: il Lend-Lease Act. Era l’11 marzo 1941. Gli Stati Uniti non erano ancora formalmente entrati nel conflitto — Pearl Harbor sarebbe arrivata solo a dicembre — ma Roosevelt e il suo governo avevano capito che l’isolazionismo non poteva durare. La guerra minacciava di travolgere tutto. Così, con un gesto che cambiò il corso della storia, Washington varò il Lend-Lease Act, una legge che autorizzava la fornitura di aiuti militari a tutti quei Paesi la cui sopravvivenza veniva ritenuta "vitale per la sicurezza degli Stati Uniti".

Non si trattava di un gesto altruistico, ma di realpolitik pura. Aiutare gli altri a combattere Hitler e il Giappone significava anche difendere gli interessi americani, contenere le forze dell’Asse e prepararsi — se necessario — a entrare nel conflitto da una posizione più solida. Da quel momento in poi, milioni di tonnellate di materiali presero il largo verso l’Europa e l’Asia, e con essi un messaggio: la guerra non si sarebbe vinta da soli.

Quando la Germania invase l’URSS nell’estate del ’41, i sovietici si trovarono improvvisamente a dover affrontare una macchina bellica devastante, lanciata in profondità nei loro territori. Le prime settimane furono un disastro: città in fiamme, eserciti in ritirata, milioni di morti o prigionieri. Fu in quel momento critico che l’aiuto americano cominciò ad arrivare. Treni carichi di viveri, convogli navali pieni di mezzi, rifornimenti via Iran e persino attraverso l’Artico. Fu una corsa contro il tempo, fatta di rischi e perdite, ma anche di una logistica colossale.

L’Armata Rossa ricevette oltre 400.000 camion, migliaia di aerei e carri armati, milioni di tonnellate di cibo, carburante, materiale industriale. Strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile organizzare le grandi controffensive che, anni dopo, l’avrebbero portata a Berlino. Non fu l’America a combattere a Stalingrado, certo. Ma molte delle truppe sovietiche ci arrivarono a bordo di mezzi americani, con stivali e uniformi made in USA, comunicando con radio prodotte in Michigan.

Anche la Cina ricevette un aiuto sostanziale, benché meno visibile nella narrazione storica. Dal 1937 in guerra contro il Giappone, il governo nazionalista di Chiang Kai-shek combatteva su più fronti: contro un nemico esterno, contro la fame, e anche contro l’opposizione interna dei comunisti di Mao. Per anni, il Paese riuscì a resistere quasi miracolosamente, ma non senza costi enormi. A quel punto, gli Stati Uniti intervennero, convinti che mantenere viva la resistenza cinese fosse strategicamente fondamentale per rallentare l’espansione giapponese.

Gli aiuti arrivarono in gran parte per via aerea, attraversando l’Himalaya in condizioni proibitive, attraverso quella che i piloti chiamavano “The Hump”. Lì passarono aerei, pezzi di ricambio, medicine, armi, viveri, e anche istruttori militari. Nonostante la frammentazione del fronte interno, questi rifornimenti contribuirono a prolungare la resistenza cinese e a mantenere vivo un fronte che altrimenti sarebbe crollato. Oggi, a ottant’anni di distanza, il racconto ufficiale che arriva da Mosca e Pechino tende a mettere in secondo piano questo capitolo scomodo. In Russia, la vittoria viene celebrata come il trionfo dell’eroismo sovietico. In Cina, si racconta di una resistenza popolare guidata (secondo la versione ufficiale) dal Partito Comunista, quando in realtà il grosso degli aiuti americani andava al governo nazionalista. In entrambi i casi, il contributo decisivo degli Stati Uniti è spesso ridotto a una nota a margine. Eppure, i numeri parlano chiaro. Non si tratta di sminuire il sacrificio dei soldati sovietici o del popolo cinese, ma di riconoscere che nessuna vittoria in quel conflitto fu davvero "autarchica".

lunedì 25 agosto 2025

Warfare quando il cinema racconta l ansia e l orrore della guerra


 

Warfare, diretto dallo stesso regista di Civil War, si presenta come un film di guerra atipico, privo di eroismi spettacolari, più vicino alla cronaca che al cinema d’azione. Se Civil War raccontava un’America fratturata dal conflitto interno, qui il campo di battaglia si sposta all’estero, ma il senso di smarrimento e impotenza resta centrale. Siamo a Ramadi, città irachena teatro di alcune delle battaglie più feroci dell’occupazione americana. Una pattuglia mista viene colpita da un IED (Improvised Explosive Device) — una bomba artigianale nascosta lungo la strada — che uccide due soldati iracheni e ferisce gravemente altri militari. Il gruppo si rifugia in un’abitazione, che diventa ben presto una trappola.

Da quel momento, l’azione si comprime: il nemico non si vede mai, ma la sua presenza è ovunque. Colpi secchi, rumori indistinti, ombre, droni che ronzano sopra le teste, aerei da combattimento che sfiorano i tetti per coprire i soccorsi. La guerra è fatta di vuoti, attese, nervi tesiIl regista rinuncia all’enfasi di Black Hawk Down, a cui il film inevitabilmente si ispira, per raccontare qualcosa di più scomodo e psicologico: la fine dell’adrenalina, l’inizio della paura. I soldati, che fino a poco prima sembravano vivere un’avventura, si trovano immersi nella cruda realtà del conflitto: senza coordinate, senza controllo, senza via d’uscita.

Warfare non cerca l’epica né l’azione. Racconta la guerra dal basso, vista da chi non prende decisioni ma le subisce. Il coraggio non è un gesto, ma la capacità di resistere. Il nemico è invisibile, la tecnologia non consola, e la vittoria semplicemente non esisteNon è un film che rivoluziona il genere. Ma nella sua sobrietà riesce a restituire con lucidità il vuoto, la tensione e l’assurdità della guerra moderna. Ed è proprio questo che lascia il segno.


domenica 24 agosto 2025

24 agosto 1815 Olympus has fallen


Nel 1814, durante la Guerra del 1812 tra Stati Uniti e Regno Unito, si consumò uno degli episodi più clamorosi della storia americana: l’assalto britannico a Washington D.C. Il 24 agosto, dopo aver sconfitto le forze americane a Bladensburg, le truppe britanniche entrarono nella capitale praticamente senza resistenza. In una sorta di versione storica di "Olympus Has Fallen", ma senza effetti speciali, gli inglesi incendiarono simbolicamente i principali edifici governativi.

A farne le spese furono il Campidoglio, diversi uffici pubblici e, soprattutto, la President’s House, come allora era chiamata la Casa Bianca. I soldati britannici appiccarono il fuoco all’edificio, distruggendone gran parte degli interni. Pare che a peggiorare la situazione siano stati anche i materiali altamente infiammabili contenuti all’interno, tra cui pesanti drappeggi e mobilio in legno pregiato.

Prima di fuggire, la First Lady Dolley Madison salvò il celebre ritratto di George Washington, che ancora oggi campeggia nella Casa Bianca. Il giorno successivo, un violento temporale – forse un uragano – contribuì a spegnere gli incendi e a limitare ulteriori distruzioni.

Quando si avviarono i lavori di ricostruzione nel 1815, l’intero edificio fu ricoperto con una vernice bianca a base di calce, utilizzata per mascherare le bruciature nere lasciate dalle fiamme. Questo gesto non solo restituì un aspetto dignitoso alla residenza presidenziale, ma contribuì anche a consolidarne il nome popolare: “White House”.

Fu solo nel 1901, con Theodore Roosevelt, che il nome divenne ufficiale. Ma tutto nacque da un incendio, una guerra, e una mano di vernice bianca.



sabato 23 agosto 2025

HERE WE GO VS ANDIAMO INSIEME. chi vince ?


 

Here we go. Tre parole secche, un suono che è diventato un marchio. È la frase del momento, l’urlo che anticipa l’azione, il segnale che tutto sta per iniziare. Un inglesismo mutuato dal grande calcio, da quelle breaking news che annunciano colpi di mercato e nuovi inizi. Ma nel mondo del futsal – e dello sport in generale – ha ormai assunto una vita propria. È diventato un grido di battaglia. Un’energia che prende forma in bocca ai giocatori, negli spogliatoi, prima di entrare in campo.

Ha preso il posto di “Vamos!”, che per anni ha fatto vibrare parquet e cuori. Ha rimpiazzato anche quel classico “Uno, due, tre a cui si aggiunge il nome della squadra che serviva a saldare il gruppo in un momento di unità e fuoco prima di cominciare il match.

Oggi non serve più la frase lunga, il discorso motivazionale, la liturgia. Serve l’urlo, l’interiezione, la botta di adrenalina. Here we go è tutto e subito. È dinamite verbale. È la voce del presente, il linguaggio del football globale che ha bisogno di colpire in un secondo, senza giri di parole.

Ma in questo cambio di lessico si perde anche qualcosa.

C'è chi, come il sottoscritto, con un pizzico di nostalgia, ripensa a quel monologo leggendario di Al Pacino in Ogni maledetta domenica: lì c’era la forza della parola lenta, del crescendo emotivo, del significato che ti entra sotto pelle. C’era la prosa che accendeva la motivazione, la voce che raccontava il dolore, la fatica, la voglia di vincere insieme e di fare gruppo.

L’inglese è perfetto per la battaglia: tagliente, efficace, da impatto immediato. Ma l’italiano – con la sua musicalità, la sua complessità, le sue mille sfumature – non è fatto per l’urlo, quanto per l’eco.

Il nostro linguaggio non scalda i cuori con un colpo secco, ma sa accendere fuochi che durano. Non ti lancia in campo, ma ti accompagna. Non ti ordina di combattere, ma ti spiega perché farlo. È la lingua delle lettere d’amore e delle poesie, delle grandi arringhe e dei sogni sussurrati. Non è un here we go, ma un “Andiamo. Insieme.” Forse è per questo che nello sport italiano c’è più cuore che show, più passione che scena. E forse è per questo che, pur gridando here we go, nel profondo continuiamo a sentire la voce antica della nostra lingua. Una voce che non urla, ma resta.


venerdì 22 agosto 2025

L’eredità di De Gasperi: un fondamento per l’Italia e per l’Europa


Alcide De Gasperi è una delle figure più importanti della storia repubblicana italiana. Statista sobrio, uomo di dialogo e visione, ha avuto un ruolo determinante nella rinascita democratica dell’Italia dopo la tragedia del fascismo e della guerra. Il suo pensiero e il suo esempio restano un punto di riferimento per chiunque creda nella buona politica come servizio al Paese. Difensore della democrazia fin dai tempi bui del regime, De Gasperi fu tra i principali artefici della Costituzione repubblicana e della costruzione delle nuove istituzioni italiane. La sua opera politica fu ispirata da una fede incrollabile nella libertà, nel pluralismo e nello Stato di diritto. Non cercò mai il consenso facile, ma si batté per la stabilità e la coesione del Paese, anche quando le sue scelte erano impopolari.

Uno dei capisaldi della sua eredità è il suo profondo europeismo. De Gasperi fu tra i padri fondatori del progetto europeo insieme a Schuman, Adenauer e Monnet. Credeva che solo attraverso l’unità dell’Europa si potesse garantire la pace, superare i nazionalismi e costruire un futuro condiviso. Per lui, l’Europa non era un’utopia, ma una necessità politica e morale. Sul piano interno, il suo governo fu protagonista della ricostruzione economica e sociale del dopoguerra. Promosse infrastrutture, lavoro, piani di sviluppo, ma sempre con grande attenzione alla coesione sociale. De Gasperi aveva una visione equilibrata del rapporto tra Stato e mercato, e fu capace di dialogare con il mondo sindacale e imprenditoriale, nella ricerca del bene comune.

Pur essendo un cattolico profondamente credente, De Gasperi fu anche un difensore della laicità delle istituzioni. Rivendicò l’autonomia della politica rispetto alle ingerenze ecclesiastiche, mantenendo un rapporto di rispetto, ma di distinzione, tra la Chiesa e lo Stato. Un equilibrio che ancora oggi è al centro del nostro assetto costituzionale.

Altra lezione fondamentale: per De Gasperi la politica era servizio, non potere. Non usò mai toni populisti, non cedette al personalismo né alle scorciatoie demagogiche. Per lui contavano l’etica pubblica, la preparazione, il senso dello Stato. “Politica come forma alta di carità”, ripeteva spesso. E questo rimane, forse, il messaggio più potente e attuale.

In tempi di crisi delle istituzioni e sfiducia nella politica, l’eredità di De Gasperi parla ancora a tutti noi: ci ricorda che è possibile essere rigorosi senza essere autoritari, idealisti senza essere ingenui, costruttori di pace anche nei momenti più bui. Un lascito che chiede di essere raccolto.

giovedì 14 agosto 2025

La lunga marcia per salvare Roma



Nel cuore dell’estate del 207 a.C., mentre la guerra contro Annibale imperversava su suolo italico, un corpo scelto di soldati romani si preparava a una delle marce più faticose e decisive della storia antica. Guidati da Gaio Claudio Nerone sei mila uomini partirono dalla Lucania, terra aspra e montuosa del Sud Italia, con un unico obiettivo: raggiungere Asdrubale Barca, il fratello di Annibale, prima che potesse unirsi all’esercito cartaginese e cambiare le sorti della guerra. La strada non era semplice. Attraversarono montagne scoscese, fitte foreste e vallate ostili, sempre all’erta contro imboscate e sorprese nemiche. La marcia si svolse spesso di notte, con il silenzio rotto solo dal rumore attutito dei passi e dal respiro affaticato dei soldati, mentre il sole ancora non sorgeva e l’aria fresca portava un’illusione di sollievo. Ogni giorno coprivano distanze immense, fino a cinquanta chilometri, una fatica enorme per uomini armati e carichi, ma la disciplina e il senso del dovere li sostenevano. La mente di questi miles romani era concentrata sul compito: la puntualità, la perseveranza e la qualità del cammino erano la loro forza. Non era la gloria immediata o il bottino a guidarli, ma la consapevolezza che ogni passo li avvicinava alla salvezza di Roma. Durante la marcia, il caldo estivo tormentava i corpi, la sete era un nemico invisibile e il terreno accidentato metteva a dura prova le loro capacità. Eppure, nessuno si lasciava scoraggiare. Dopo sei giorni estenuanti, il 23 giugno del 207, i soldati arrivarono al fiume Metauro, dove Asdrubale li aspettava con un esercito numeroso e potenti elefanti da guerra. La marcia non era stata solo un percorso fisico, ma una prova di resistenza, strategia e sacrificio. L’abilità dei comandanti nel guidare queste truppe in condizioni estreme si rivelò decisiva per la vittoria che seguì. Grazie a questa marcia, Roma evitò un disastro, sconfiggendo un nemico temibile e consolidando la propria supremazia nella penisola. La lunga marcia dei miles romani non fu solo uno spostamento geografico, ma un simbolo della tenacia e dell’anima di un popolo che affrontava la guerra con coraggio, umiltà e dedizione assoluta. La loro impresa rimane ancora oggi una delle più straordinarie testimonianze di forza e disciplina militare dell’antichità.

sabato 9 agosto 2025

il famigerato patto Ribbentropp Molotov


 

Il 23 agosto 1939, mentre l’Europa tratteneva il respiro in attesa della guerra, a Mosca si firmava un accordo che avrebbe sancito uno dei più spietati tradimenti della storia moderna. Il Patto Molotov-Ribbentrop, ufficialmente un semplice trattato di non aggressione tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista, fu in realtà un cinico patto segreto di spartizione territoriale.

Dietro le fotografie ufficiali, le strette di mano forzate e le dichiarazioni diplomatiche si celava un documento occulto che ridisegnava l’Europa orientale come se fosse una scacchiera, ignorando del tutto l’esistenza di nazioni, popoli e diritti. Nessuno sapeva che allegato al testo principale c’era un protocollo segreto: un foglio firmato nella notte, tra Stalin, Molotov e Ribbentrop, che divideva Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Bessarabia tra le due potenze, assegnando zone d’influenza come si dividono bottini tra ladri.

La Polonia, già sotto pressione tedesca, venne spezzata in due: a ovest la Germania, a est l’URSS. Estonia, Lettonia e Lituania finirono nella zona sovietica. La Bessarabia fu promessa a Mosca. L’accordo prevedeva persino il futuro assalto alla Finlandia. In meno di un mese, il piano si trasformò in realtà. Il 1° settembre, Hitler invadeva la Polonia da ovest. Il 17 settembre, Stalin entrava da est. Il paese fu cancellato dalla carta geografica. Seguì l’occupazione dei Paesi Baltici, la guerra d’inverno contro la Finlandia, l’annessione di territori rumeni. Tutto come stabilito. Tutto come pianificato nell’ombra.

Ma il mondo non lo sapeva. Per decenni, quel protocollo fu negato, nascosto, manipolato. Mosca giurava che non esistesse. Chi osava insinuarne l’esistenza rischiava la censura, l’arresto, l’esilio. Gli archivi erano sigillati, le verità sepolte sotto tonnellate di propaganda. Solo con il crollo del regime sovietico, cinquant’anni dopo, nel 1989, vennero alla luce le prove definitive: copie originali, testimonianze, confessioni. E in quell’anno simbolico, proprio il 23 agosto, due milioni di cittadini baltici formarono una catena umana lunga 600 km, da Vilnius a Tallinn, per denunciare la menzogna e rivendicare la verità.

Il 24 dicembre 1989, con il mondo che ormai guardava oltre la cortina di ferro, il Parlamento sovietico fu costretto ad ammettere ufficialmente l’esistenza del protocollo segreto. Una riga secca, laconica: «Quel documento non ha mai avuto valore legale.» Ma aveva già avuto un valore devastante: aveva permesso invasioni, occupazioni, deportazioni, massacri. Aveva disegnato un’Europa sotto ricatto, con una linea invisibile tracciata nel sangue.

Il Patto Molotov-Ribbentrop non fu solo una pagina di diplomazia. Fu una complicità criminale tra due regimi totalitari che, per convenienza politica, decisero di fare a pezzi un continente. La sua parte segreta — per anni negata, occultata, rimossa — è la prova che la storia si può scrivere con l’inchiostro, ma anche con la menzogna. E che la verità, quando emerge, lo fa sempre con il fragore delle catene spezzate.

Oggi, a distanza di oltre ottant’anni, il fantasma di quel patto non è del tutto sepolto. Quando la Russia parla di “zone d’influenza”, invade territori sovrani, nega l’esistenza storica di intere nazioni — come avvenuto con l’Ucraina — riemerge la stessa logica che alimentava il protocollo del 1939: decidere confini a tavolino, calpestando popoli, storie, diritti. Cambiano i nomi, i leader, le bandiere. Ma la tentazione di ridisegnare il mondo con la forza e l’inganno resta intatta. La memoria serve esattamente a questo: a riconoscere, quando riappare, lo stesso veleno sotto nuove maschere.


mercoledì 6 agosto 2025

Hiroshima e il peso della storia


 

Oggi il mondo ricorda lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima, simbolo del potere distruttivo dell’uomo e di una guerra che ha segnato per sempre l’umanità. È giusto riflettere sul dolore, sul crimine che è stato commesso e sul pericolo permanente legato all’uso del nucleare come arma. Tuttavia, si riflette ancora poco su come si sia arrivati a quella tragica decisione.

Nel cuore della Seconda guerra mondiale, anche la Germania nazista era sulla strada dell’atomo. Le V1 e le V2 di Hitler erano armi anticipatrici, e se la bomba fosse arrivata nelle sue mani prima che in quelle degli Stati Uniti, l’esito sarebbe stato davvero apocalittico. Non meno pericolosa era la visione del Giappone imperiale: una cultura militare in cui la morte aveva un valore superiore alla vita, esaltata dai kamikaze, nati proprio in quel contesto.

La bomba fu usata dagli americani per fermare una guerra che, altrimenti — secondo molti storici — avrebbe richiesto lo sterminio pressoché totale della popolazione giapponese, a causa della resistenza fanatica e dell’indottrinamento collettivo. Per comprendere appieno la portata di quella visione, basta guardare all’orrore della battaglia di Okinawa: uno scontro durato 82 giorni, teatro del più grande massacro civile del conflitto nel Pacifico, con oltre 200.000 vittime tra militari e civili giapponesi.

La bomba atomica fu, piaccia o meno, il cosiddetto “male minore”.

Questo non cancella il dolore, né assolve l’orrore. Ma ci ricorda che la storia è fatta anche di scelte tragiche, spesso senza alternative semplici. Il feroce nazionalismo giapponese, unito a una cieca idea di superiorità, aveva sacrificato ogni forma di buon vivere, trasformando la morte in culto e l’impero in ideologia assoluta.

Ricordare Hiroshima significa anche riconoscere come quella data fu l’epilogo di una filosofia imperialista e nazionalista portata all’estremo. E ci insegna, ancora oggi, quanto sottile sia il confine tra civiltà e abisso, e quanto la pace vada protetta con consapevolezza, memoria e verità storica, evitando il più possibile ogni deriva nazionalista.

lunedì 4 agosto 2025

La verità rende liberi. Tre secoli fa il processo Zenger in America stabilisce un principio


 

La genesi della libertà di stampa in America precede la nascita degli Stati Uniti, radicandosi già all’inizio del XVIII secolo, quando le tredici colonie erano ancora sotto il dominio della Corona britannica. Un evento fondamentale in questo percorso fu il processo a John Peter Zenger, avvenuto nel 1735 a New York.

Zenger, tipografo e giornalista tedesco immigrato, pubblicava il settimanale New York Weekly Journal, in cui denunciava la corruzione del governatore coloniale William Cosby. Accusato di diffamazione sediziosa, venne arrestato e processato, nonostante gli articoli fossero veritieri. All’epoca, infatti, in base al diritto inglese, la verità non costituiva una difesa sufficiente contro l’accusa di diffamazione contro l’autorità.

Il caso ebbe un esito sorprendente: Zenger fu assolto, grazie alla difesa dell’avvocato Andrew Hamilton, che sostenne il principio secondo cui “la verità non è diffamazione”. Questo verdetto segnò una svolta: pur non modificando formalmente le leggi, stabilì un precedente fondamentale per la libertà di stampa nelle colonie americane.

Da quel momento, l’idea che la stampa potesse e dovesse svolgere un ruolo di controllo nei confronti del potere cominciò a radicarsi nella cultura politica coloniale. Questo principio si sarebbe poi consolidato, qualche decennio dopo, nella Costituzione degli Stati Uniti, con il Primo Emendamento (1791), che sancisce esplicitamente la libertà di stampa come diritto fondamentale.

Il processo Zenger, quindi, è considerato un momento fondativo della democrazia americana e dell’idea moderna di libera informazione, anticipando di oltre mezzo secolo i principi costituzionali che ne sarebbero derivati.

giovedì 31 luglio 2025

Ford e i legami con la Germania


 

Il 30 luglio 1938, mentre in Europa cresceva la tensione che avrebbe portato di lì a poco allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Henry Ford, il magnate dell’industria automobilistica americana, riceveva un riconoscimento sorprendente: la Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, la più alta onorificenza del regime nazista destinata a uno straniero. A conferirgliela, per volere di Adolf Hitler, fu il console tedesco a Detroit, in una cerimonia ufficiale. Il fatto, per quanto passato sotto silenzio all’epoca da gran parte della stampa americana, rappresenta uno degli episodi più controversi nella storia dell’industria statunitense. Il legame tra Ford e la Germania hitleriana non fu soltanto simbolico: aveva radici ideologiche, economiche e industriali profonde.

La Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca non era un premio qualsiasi. Fu istituita dal Terzo Reich per onorare coloro che si erano distinti, anche all’estero, per il loro contributo — diretto o indiretto — agli interessi della Germania nazista. Tra i pochi a riceverla ci furono figure come Benito Mussolini e altri simpatizzanti o collaboratori del regime. Ford fu l’unico americano a riceverla prima della guerra, un fatto che destò scalpore nei circoli diplomatici ma che venne minimizzato pubblicamente. Non risulta che Ford abbia mai rifiutato o restituito l’onorificenza, neppure dopo lo scoppio del conflitto mondiale.

Il legame tra Henry Ford e l’ideologia nazista non fu soltanto economico. Già negli anni ’20, Ford era noto per il suo antisemitismo militante. Tra il 1920 e il 1927 finanziò e pubblicò sul suo settimanale personale, The Dearborn Independent, una lunga serie di articoli antisemiti, successivamente raccolti e diffusi in tutto il mondo sotto il titolo The International Jew (L’ebreo internazionale). Il libro ebbe grande diffusione anche in Germania e fu citato positivamente da Adolf Hitler nel Mein Kampf. Hitler, che ammirava Ford come simbolo del capitalismo produttivo "non contaminato", teneva addirittura una sua fotografia nel suo ufficio personale.

Parallelamente a questa vicinanza ideologica, esisteva anche una relazione economica concreta. La Ford Werke AG, filiale tedesca della casa automobilistica americana, era attiva in Germania fin dagli anni ’20. Con l’ascesa al potere del nazismo, l’azienda proseguì le sue attività e — almeno fino allo scoppio della guerra — collaborò con lo stato tedesco anche nella produzione di mezzi a uso militare, come camion e veicoli per la Wehrmacht. Durante la guerra, la fabbrica di Colonia fu riconvertita in parte alla produzione bellica e, secondo molte fonti storiche, utilizzò lavoratori forzati, compresi prigionieri di guerra e deportati civili. Anche se Ford Motor Company sostenne in seguito di aver perso il controllo diretto della filiale dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, le responsabilità restano oggetto di dibattito.

martedì 29 luglio 2025

La storia insegna che dazi e conservatorismo non fermano il progresso: la rivolta dei boxer


 

Nel 1898, l’imperatore Guangxu lancia la Riforma dei Cento Giorni, ispirata al modello giapponese Meiji: un piano ambizioso per modernizzare scuola, burocrazia, industria ed esercito. Ma dopo appena tre mesi, l’Imperatrice vedova Cixi, simbolo del conservatorismo Qing, stronca tutto con un colpo di Stato. Guangxu viene esiliato nel suo stesso palazzo, e i principali riformatori messi a tacere.

Due anni dopo, esplode la Rivolta dei Boxer: un’insurrezione nazionalista e xenofoba che prende di mira i missionari cristiani e le presenze economiche straniere, viste come causa del degrado economico locale. Cixi, nella speranza di ristabilire un equilibrio anti-occidentale, decide di appoggiare i Boxer. Ma è un grave errore strategico: l’intervento armato dell’Alleanza delle Otto Nazioni devasta Pechino, costringe l’impero Qing a pesanti risarcimenti e impone un’umiliante occupazione straniera.

Quel fallimento dimostra che il conservatorismo rigido e isolazionista non porta buoni frutti. Il tentativo di proteggere l’ordine antico finisce per accelerarne il crollo. Eppure, proprio dopo la sconfitta, si apre una nuova fase: la Cina, sotto la regia forzata della stessa Cixi, avvia timide ma significative riforme “tardive” – dall’abolizione degli esami confuciani nel 1905, alla nascita di scuole moderne, alle prime strutture di governo locale più razionali.

In conclusione, Cixi non riuscì a fermare la modernizzazione, perché i cambiamenti sociali ed economici erano ormai inevitabili. Il conservatorismo puro, scollegato dalla realtà, si rivelò sterile. La Cina iniziò a trasformarsi non perché lo volle la corte imperiale, ma perché la storia impose il cambiamento.

giovedì 17 luglio 2025

Cavour e i dazi, l'attualità della storia


Di solito la storia non mente: gli esempi del passato, su temi oggi di estrema attualità, sono quanto mai utili per uscire dalle secche di un’economia irrigidita.

Pensare a un illuminato statista – e anche giornalista – come Camillo Benso di Cavour, significa ricordare come egli fondò la sua politica di costruzione dell’Italia sul libero scambio commerciale, opponendosi strenuamente ai dazi doganali. La sua posizione nasceva da una profonda adesione ai principi dell’economia liberale di stampo britannico, in particolare al pensiero di Adam Smith e dei suoi successori, secondo i quali il commercio libero avrebbe portato ricchezza, innovazione e progresso per tutti.

Secondo Cavour, i dazi – ovvero le tasse sulle merci importate – proteggevano artificialmente le industrie meno efficienti, rallentando il miglioramento tecnologico e mantenendo alti i prezzi per i consumatori. In un discorso al Parlamento sabaudo del 1847, affermò che i dazi rappresentavano una forma di “tassa nascosta” che finiva per danneggiare sia i produttori che i consumatori, in particolare le classi più povere, costrette a pagare di più beni essenziali come grano, tessuti e metalli.

Cavour riteneva inoltre che il libero commercio tra i popoli fosse un mezzo per favorire la pace e la cooperazione internazionale: più le nazioni sono economicamente interdipendenti, minori sono le probabilità che si scontrino in guerra.

La sua politica economica portò il Regno di Sardegna a firmare importanti trattati commerciali con Francia e Inghilterra, aprendo i mercati e rafforzando i legami diplomatici. La modernizzazione agricola e industriale del Piemonte negli anni Cinquanta dell’Ottocento fu, in gran parte, il frutto di queste scelte.

Cavour era consapevole che aprire il mercato avrebbe messo in difficoltà alcuni settori arretrati, ma riteneva ciò necessario per spingere l’economia verso l’innovazione. Rifiutava l’idea che lo Stato dovesse proteggere indefinitamente chi non riusciva a competere, preferendo invece creare le condizioni per favorire la crescita delle imprese più dinamiche.

In un’Italia ancora frammentata, la sua visione aveva anche una forte valenza politica: il libero scambio poteva diventare un collante economico tra le diverse regioni, superando barriere locali e creando una nazione unita non solo sul piano politico, ma anche economico.

Ecco perché, a distanza di oltre 170 anni, il pensiero di Cavour rappresenta ancora un esempio attuale e lungimirante, a cui guardare con estrema fiducia.



mercoledì 9 luglio 2025

Quando le tensioni politiche finivano in duello (il caso Burr)


 Era il 1804 quando la tensione politica e personale tra Aaron Burr, vicepresidente degli Stati Uniti in carica, e Alexander Hamilton, ex segretario del Tesoro e padre fondatore, esplose in maniera irreparabile. Burr, reduce da una pesante sconfitta elettorale nello Stato di New York, era convinto che il responsabile fosse proprio Hamilton, che da mesi lavorava dietro le quinte per ostacolarne l’ascesa politica, scrivendo lettere a esponenti del partito federalista e mettendo in dubbio la sua integrità e le sue ambizioni. Ma a far traboccare il vaso furono alcune frasi sprezzanti pronunciate da Hamilton durante una cena ad Albany, che divennero di dominio pubblico. Nell’America del tempo, la reputazione era tutto: Burr si sentì colpito nell’onore e, nonostante il duello fosse vietato nello Stato di New York, sfidò Hamilton a battersi al di là del fiume Hudson, nel New Jersey, dove le leggi erano più tolleranti. Il duello si consumò il mattino dell’11 luglio 1804, a Weehawken. Hamilton sparò in aria, forse per risparmiare l’avversario; Burr no. Alexander Hamilton morì il giorno seguente. Burr, pur non condannato formalmente, vide la sua carriera politica finire con quello sparo. Una pagina oscura della storia americana, che ci ricorda come, un tempo, le tensioni politiche potevano trasformarsi in tragedie personali, anche ai vertici della nazione (insomma nulla di nuovo sotto il sole).


Coppa di Divisione buona la prima 6 a 0 all'Itar

  Ci siamo: inizia una nuova stagione da vivere con passione a bordo parquet! Nella passata stagione siamo arrivati a un soffio dal realiz...