Per oltre sei anni, tra il 1995 e il 2001, un uomo ha sfidato musei, gallerie e chiese di mezza Europa con un’ossessione tanto singolare quanto disarmante: rubare opere d’arte non per venderle, ma per ammirarle. Si chiama Stéphane Breitwieser, alsaziano, nato nel 1971, e la sua è forse la storia più sorprendente mai scritta sull’amore – e sulla dipendenza – per la bellezza. Non era un ladro nel senso classico del termine. Non aveva complici armati, non usava forza o violenza. Visitava piccoli musei, spesso di provincia, dove la sicurezza era minima e i visitatori pochi. Entrava con passo tranquillo, osservava a lungo un dipinto, poi – con calma e precisione – lo staccava dal muro, lo nascondeva sotto il cappotto e se ne andava. Insieme a lui, quasi sempre, c’era la compagna Anne-Catherine Kleinklaus, che lo accompagnava nei viaggi e faceva da palo durante i furti.
In
poco più di un lustro, Breitwieser ha sottratto oltre 300
opere d’arte
da musei in Francia, Belgio, Germania, Svizzera, Olanda e Italia. Il
valore complessivo del bottino è stato stimato in oltre
un miliardo e mezzo di euro.
Ma nessuna di quelle opere è mai finita sul mercato nero.
Tutto
era conservato nella casa della madre, in Alsazia, dove una camera da
letto si era trasformata in un piccolo museo personale: quadri di
Lucas Cranach, miniature del Cinquecento, argenti, strumenti
musicali, cornici dorate. Breitwieser trascorreva le giornate in
quella stanza, contemplando la collezione come un curatore privato,
convinto di vivere un rapporto esclusivo con la bellezza.
Il suo è stato definito un caso di “cleptomania estetica”: un impulso non legato al denaro, ma al desiderio di possedere ciò che si ama. In un’intervista, anni dopo, ha dichiarato: “Non rubavo per profitto, ma per passione. Ogni opera mi chiamava. Dovevo averla vicino, vederla ogni giorno.”
Tutto
crollò nel novembre
2001,
quando venne arrestato a Lucerna, in Svizzera, dopo un furto andato
storto. Durante la sua detenzione, la madre, temendo una
perquisizione, distrusse gran parte delle opere. Ne tagliò molte, ne
bruciò altre, ne gettò alcune in un canale.
Più di cento
capolavori
andarono perduti per sempre: un disastro culturale senza precedenti.
Quando Stéphane lo seppe, reagì con incredulità e disperazione. Il
suo “museo segreto”, il tempio privato della sua ossessione, era
svanito nel nulla.
Condannato a tre anni di prigione in Svizzera, poi a ulteriori pene in Francia, Breitwieser non smise di occuparsi d’arte. Nel 2006 pubblicò l’autobiografia Confessions d’un Voleur d’Art, in cui racconta la sua ossessione come una forma di amore assoluto: una tensione tra desiderio estetico e colpa, tra il culto della bellezza e la trasgressione del possesso.
Ma l’ossessione, come spesso accade, non guarì. Nel 2019 la polizia francese trovò nella sua abitazione decine di nuovi oggetti rubati – dipinti, sculture, argenti – segno che il richiamo dell’arte continuava a dominare la sua vita. Oggi vive in libertà vigilata, osservato con la stessa curiosità e diffidenza che si riserva ai personaggi più complessi: vittima e carnefice, romantico e ladro, appassionato e distruttore.
La
vicenda di Stéphane Breitwieser resta una parabola contemporanea sul
confine sottile tra amore e ossessione, tra ammirazione e possesso.
La sua storia interroga il nostro rapporto con la bellezza: possiamo
davvero “possedere” ciò che amiamo, o nel tentativo di farlo
finiamo per distruggerlo?
Nel caso di Breitwieser, la risposta è
tragica e definitiva: il ladro che rubava per custodire l’arte finì
per perderla per sempre.

Nessun commento:
Posta un commento