Il VAR, nelle intenzioni dei grandi burattinai del calcio, doveva essere la rivoluzione perfetta. L’arma tecnologica che avrebbe messo fine a ogni discussione, dissolvendo le ombre del sospetto e restituendo alla giustizia sportiva la sua purezza originaria. In teoria, un’idea impeccabile. In pratica, un incubo a colori.
A distanza non di mesi ma di anni, il grido profetico di Aldo Biscardi — “vogliamo la moviola in campo!” — è diventato la nostra ossessione domenicale. Quella che doveva essere la fine delle polemiche è diventata la loro moltiplicazione infinita. Ora le proteste non si fermano al “rigore sì, rigore no”: si dibatte di simulazioni e di scene teatrali, di angolazioni, di fotogrammi, di ginocchi sporgenti e di ascelle in fuorigioco.
Gli arbitri in campo non sono più soli. Alle loro spalle, o meglio sopra le loro teste, un esercito di giacchette fosforescenti, chiuse nelle sale operative di Lissone, analizza ogni tocco, ogni movimento, ogni frammento di partita. Non una palazzina arbitrale, ma un centro di controllo degno della NASA, dove si misura l’ångström che separa la regolarità dall’infamia sportiva.
La geometria ha sostituito l’intuito, il teorema ha preso il posto del fischietto. E così la partita, anziché scorrere nel suo ritmo naturale, diventa una sequenza di pause, attese, sospiri. Al gol non si esulta più: si aspetta la sentenza, come al tribunale dell’’Aia. L’arbitro tocca l’orecchio, il pubblico trattiene il fiato, il tempo si congela. Poi arriva il verdetto, spesso accolto da urla e improperi.
Il bello è che, nonostante tutto questo arsenale di tecnologia, il dubbio resta sempre. Forse perché il calcio, come la vita, non è fatto per essere vivisezionato al millimetro. È un gioco d’istinto, di errori, di emozioni. E invece lo stiamo trasformando in una perizia balistica. Ogni domenica, milioni di tifosi si improvvisano ingegneri ottici, analizzano immagini rallentate, tracciano linee colorate, citano regolamenti con la passione di un penalista. La promessa era di “rendere il calcio più giusto”. Il risultato? Lo abbiamo reso più nevrotico.
E così, mentre a Lissone le antenne del VAR scrutano ogni fotogramma con l’infallibilità della macchina, giù nei bar e sui social si accende la solita canea: c’è chi grida al complotto, chi invoca la Var Room come un oracolo infedele, chi sospetta favoritismi algoritmici. Una tecnologia che doveva pacificare il calcio lo ha reso ancora più divisivo.
A volte viene da pensare che il vero fuorigioco non sia quello di un attaccante con la punta del piede avanti, ma quello di uno sport che ha smarrito la sua spontaneità.
Una sola certezza rimane, tra ironia e rassegnazione: non vorrei abitare a Lissone. Perché, di questo passo, con le antenne che scrutano e i tifosi che ribollono, prima o poi qualcuno rischia di confondere la palazzina del VAR con la sede dell’ingiustizia calcistica universale e dalla presa della Bastiglia a quella dell’Antenna è un attimo.


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