Nel dicembre del 1927, la Russia sovietica era già profondamente segnata dall’ombra crescente di Iosif Stalin. Il potere si stava concentrando nelle sue mani con una rapidità feroce, e ogni voce fuori dal coro cominciava a diventare pericolosa. In questo contesto cupo, Vladimir Michajlovič Bechterev, uno dei più rispettati neuropsichiatri dell’epoca, ricevette un improvviso ordine: recarsi a Mosca per visitare un paziente molto particolare.
Bechterev, scienziato razionale, abituato a parlare con franchezza e osservare con rigore, era consapevole dei rischi impliciti in quell’invito. Sapeva che nessuna convocazione proveniente dal vertice del potere era priva di conseguenze. Eppure partì, fedele alla sua vocazione scientifica più che al buon senso politico.
Il paziente che lo attendeva era Stalin in persona. Il dittatore soffriva di una rigidità alla mano sinistra — forse il sintomo di un disturbo neurologico più profondo — ma ciò che colpì maggiormente Bechterev non fu la mano, bensì l’espressione, l’atteggiamento, l’intera presenza di quell’uomo. Durante l’esame clinico, Bechterev colse segnali evidenti di paranoia, rigidità psichica, diffidenza patologica. Stalin non era solo un uomo con un problema fisico: era, secondo il giudizio clinico del medico, un caso psichiatrico.
Rientrato a Leningrado, Bechterev, senza riserve, condivise le sue impressioni con alcuni colleghi. Fece una battuta amara, quasi ironica, che però si rivelò letale: disse di aver appena esaminato “un paranoico con una mano secca” — e quel paranoico era Stalin. In un regime dove anche il sospetto valeva una condanna, la frase fu riferita, registrata, archiviata nei meccanismi invisibili della repressione.
Il giorno seguente, Bechterev morì improvvisamente. La causa ufficiale fu un attacco cardiaco, ma le circostanze furono talmente sospette da far nascere, già allora, il sospetto di un omicidio. Non vi fu autopsia. Il suo nome cominciò lentamente a scomparire dai testi ufficiali, dalle citazioni scientifiche, dalla memoria pubblica. La sua morte, come quella di tanti altri intellettuali negli anni successivi, fu uno dei primi segnali di ciò che stava per accadere: la trasformazione definitiva del potere in culto, e del dissenso in crimine.
Bechterev pagò con la vita la propria onestà intellettuale. Non fu ucciso per un gesto politico, ma per aver detto la verità. Una verità clinica, osservata scientificamente, eppure troppo pericolosa da pronunciare ad alta voce. La sua diagnosi non fu scritta su carta, ma si diffuse per via orale tra colleghi e allievi, diventando leggenda accademica: un ammonimento sulla fine che spetta a chi, sotto un regime totalitario, osa guardare il potere con occhi lucidi e dirne il vero volto.
Così morì uno dei padri della neuropsichiatria russa, non per un errore medico, ma per un eccesso di lucidità.
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