Eventi che però hanno un
fascino superiore. Solo chi ha provato l’ebbrezza del parco chiuso, il bivacco,
le prove, i lunghi trasferimenti, i problemi tecnici e si è trovato nella
grande famiglia Dakar, prima quella storica di Thierry Sabine poi con tutte le
varie prove fino ad arrivare a quella odierna che si corre in Arabia Saudita,
può comprendere queste sensazioni.
Tornano alla mente
ricordi lontani, quelli del 1990, il trasferimento da Milano (Assago) a Parigi,
il parco chiuso a Rouen, il viaggio tra due ali di folla, soprattutto oltralpe
con i ragazzini che si attaccavano alla tua jeep in cerca di gadget. Quattro
chiacchere con Ambrogio Fogar, il rude carattere di Klaus Seppi, il fascino
orientale di Kenshiro Shinozuka, prima guida di una grande casa giapponese, il
suo team manager, un certo Jean Todt, le indicazioni del mentore Cassini, Clermont
Ferrand con il prologo su una pista in terra battuta, i colloqui con altri
giornalisti di prestigiose testate.
Il 1990 come il 2021, nulla
è cambiato in questi anni, chi vi ha partecipato lo sa. Gennaio è il mese per
antonomasia di questa corsa, di questa prova sovrumana in cui il mezzo meccanico
si scontra con la natura e in cui spesso ci casca anche il morto, perché la strada
non è lineare, una buca è sempre dietro l’angolo e l’attenzione non può
mancare. La Dakar è un mito senza tempo e non finirà mai di stupire anche perché
è un ricordo che vale. Non ditelo a Peterhansel che la vinta per 14 volte,
compresa quella del 2021.
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