Jannacci era Milano e il Milan,
il cantautore milanese, medico, ma soprattutto poeta moderno in grado di
raccontare con una strofa, con una battuta con un tic la milanesità e il
milanismo meglio di chiunque altro. Era un sodalizio quello tra lui e Beppe
Viola unico, una passione comune il Milan, una capacità rara di estrapolare
battute fulminanti. Erano la quintessenza delle storie di ringhera della capitale meneghina. Era il Milan di
Rivera, era il Milan degli anni sessanta, era quello del Paron, era quello
della stella agognata e cercata, era quello dei casciavit, era quello della
sinistra operaia, era quello della domenica pomeriggio sempre e comunque in
curva . Era quello dei giocatori operai dei Lodetti dei Rosato ma anche dei
Chiarugi, dei Buriani dei Novellino. Era un Milan dal volto umano tante volte
cantato e decantato. Esilarante la strofa che recitava (..) quelli che quando
perde il Milan o l’inter dicono che è solo una partita di calcio e poi vanno a
casa e picchiano i figli oh yeahhh(..)
Me lo ricordo in un derby anonimo
degli anni ottanta finito zero a zero, biglietto di parterre, quella zona oscura
a fare da contorno al campo in cui praticamente quando eri in piedi era come
vedere i giocatori da una cantina, incrociando il suo sguardo e sentire il suo
giudizio estetico mai sopra le righe dire Ghè ne minga. Le sue canzoni, il suo
lascito testamentario ci hanno raccontato storie popolari di quartiere, storie
di gioventù, la sua e nostra Milano, e quando poteva una strofa e un
riferimento al Milan erano d’obbligo, fede mai eccessivamente sbandierata ma sempre
portata nel cuore. E’ questa la quintessenza del Milan e del suo essere tifoso
e San Siro sarà per sempre la sua casa
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