lunedì 25 agosto 2025

Warfare quando il cinema racconta l ansia e l orrore della guerra


 

Warfare, diretto dallo stesso regista di Civil War, si presenta come un film di guerra atipico, privo di eroismi spettacolari, più vicino alla cronaca che al cinema d’azione. Se Civil War raccontava un’America fratturata dal conflitto interno, qui il campo di battaglia si sposta all’estero, ma il senso di smarrimento e impotenza resta centrale. Siamo a Ramadi, città irachena teatro di alcune delle battaglie più feroci dell’occupazione americana. Una pattuglia mista viene colpita da un IED (Improvised Explosive Device) — una bomba artigianale nascosta lungo la strada — che uccide due soldati iracheni e ferisce gravemente altri militari. Il gruppo si rifugia in un’abitazione, che diventa ben presto una trappola.

Da quel momento, l’azione si comprime: il nemico non si vede mai, ma la sua presenza è ovunque. Colpi secchi, rumori indistinti, ombre, droni che ronzano sopra le teste, aerei da combattimento che sfiorano i tetti per coprire i soccorsi. La guerra è fatta di vuoti, attese, nervi tesiIl regista rinuncia all’enfasi di Black Hawk Down, a cui il film inevitabilmente si ispira, per raccontare qualcosa di più scomodo e psicologico: la fine dell’adrenalina, l’inizio della paura. I soldati, che fino a poco prima sembravano vivere un’avventura, si trovano immersi nella cruda realtà del conflitto: senza coordinate, senza controllo, senza via d’uscita.

Warfare non cerca l’epica né l’azione. Racconta la guerra dal basso, vista da chi non prende decisioni ma le subisce. Il coraggio non è un gesto, ma la capacità di resistere. Il nemico è invisibile, la tecnologia non consola, e la vittoria semplicemente non esisteNon è un film che rivoluziona il genere. Ma nella sua sobrietà riesce a restituire con lucidità il vuoto, la tensione e l’assurdità della guerra moderna. Ed è proprio questo che lascia il segno.


domenica 24 agosto 2025

24 agosto 1815 Olympus has fallen


Nel 1814, durante la Guerra del 1812 tra Stati Uniti e Regno Unito, si consumò uno degli episodi più clamorosi della storia americana: l’assalto britannico a Washington D.C. Il 24 agosto, dopo aver sconfitto le forze americane a Bladensburg, le truppe britanniche entrarono nella capitale praticamente senza resistenza. In una sorta di versione storica di "Olympus Has Fallen", ma senza effetti speciali, gli inglesi incendiarono simbolicamente i principali edifici governativi.

A farne le spese furono il Campidoglio, diversi uffici pubblici e, soprattutto, la President’s House, come allora era chiamata la Casa Bianca. I soldati britannici appiccarono il fuoco all’edificio, distruggendone gran parte degli interni. Pare che a peggiorare la situazione siano stati anche i materiali altamente infiammabili contenuti all’interno, tra cui pesanti drappeggi e mobilio in legno pregiato.

Prima di fuggire, la First Lady Dolley Madison salvò il celebre ritratto di George Washington, che ancora oggi campeggia nella Casa Bianca. Il giorno successivo, un violento temporale – forse un uragano – contribuì a spegnere gli incendi e a limitare ulteriori distruzioni.

Quando si avviarono i lavori di ricostruzione nel 1815, l’intero edificio fu ricoperto con una vernice bianca a base di calce, utilizzata per mascherare le bruciature nere lasciate dalle fiamme. Questo gesto non solo restituì un aspetto dignitoso alla residenza presidenziale, ma contribuì anche a consolidarne il nome popolare: “White House”.

Fu solo nel 1901, con Theodore Roosevelt, che il nome divenne ufficiale. Ma tutto nacque da un incendio, una guerra, e una mano di vernice bianca.



sabato 23 agosto 2025

HERE WE GO VS ANDIAMO INSIEME. chi vince ?


 

Here we go. Tre parole secche, un suono che è diventato un marchio. È la frase del momento, l’urlo che anticipa l’azione, il segnale che tutto sta per iniziare. Un inglesismo mutuato dal grande calcio, da quelle breaking news che annunciano colpi di mercato e nuovi inizi. Ma nel mondo del futsal – e dello sport in generale – ha ormai assunto una vita propria. È diventato un grido di battaglia. Un’energia che prende forma in bocca ai giocatori, negli spogliatoi, prima di entrare in campo.

Ha preso il posto di “Vamos!”, che per anni ha fatto vibrare parquet e cuori. Ha rimpiazzato anche quel classico “Uno, due, tre a cui si aggiunge il nome della squadra che serviva a saldare il gruppo in un momento di unità e fuoco prima di cominciare il match.

Oggi non serve più la frase lunga, il discorso motivazionale, la liturgia. Serve l’urlo, l’interiezione, la botta di adrenalina. Here we go è tutto e subito. È dinamite verbale. È la voce del presente, il linguaggio del football globale che ha bisogno di colpire in un secondo, senza giri di parole.

Ma in questo cambio di lessico si perde anche qualcosa.

C'è chi, come il sottoscritto, con un pizzico di nostalgia, ripensa a quel monologo leggendario di Al Pacino in Ogni maledetta domenica: lì c’era la forza della parola lenta, del crescendo emotivo, del significato che ti entra sotto pelle. C’era la prosa che accendeva la motivazione, la voce che raccontava il dolore, la fatica, la voglia di vincere insieme e di fare gruppo.

L’inglese è perfetto per la battaglia: tagliente, efficace, da impatto immediato. Ma l’italiano – con la sua musicalità, la sua complessità, le sue mille sfumature – non è fatto per l’urlo, quanto per l’eco.

Il nostro linguaggio non scalda i cuori con un colpo secco, ma sa accendere fuochi che durano. Non ti lancia in campo, ma ti accompagna. Non ti ordina di combattere, ma ti spiega perché farlo. È la lingua delle lettere d’amore e delle poesie, delle grandi arringhe e dei sogni sussurrati. Non è un here we go, ma un “Andiamo. Insieme.” Forse è per questo che nello sport italiano c’è più cuore che show, più passione che scena. E forse è per questo che, pur gridando here we go, nel profondo continuiamo a sentire la voce antica della nostra lingua. Una voce che non urla, ma resta.


venerdì 22 agosto 2025

L’eredità di De Gasperi: un fondamento per l’Italia e per l’Europa


Alcide De Gasperi è una delle figure più importanti della storia repubblicana italiana. Statista sobrio, uomo di dialogo e visione, ha avuto un ruolo determinante nella rinascita democratica dell’Italia dopo la tragedia del fascismo e della guerra. Il suo pensiero e il suo esempio restano un punto di riferimento per chiunque creda nella buona politica come servizio al Paese. Difensore della democrazia fin dai tempi bui del regime, De Gasperi fu tra i principali artefici della Costituzione repubblicana e della costruzione delle nuove istituzioni italiane. La sua opera politica fu ispirata da una fede incrollabile nella libertà, nel pluralismo e nello Stato di diritto. Non cercò mai il consenso facile, ma si batté per la stabilità e la coesione del Paese, anche quando le sue scelte erano impopolari.

Uno dei capisaldi della sua eredità è il suo profondo europeismo. De Gasperi fu tra i padri fondatori del progetto europeo insieme a Schuman, Adenauer e Monnet. Credeva che solo attraverso l’unità dell’Europa si potesse garantire la pace, superare i nazionalismi e costruire un futuro condiviso. Per lui, l’Europa non era un’utopia, ma una necessità politica e morale. Sul piano interno, il suo governo fu protagonista della ricostruzione economica e sociale del dopoguerra. Promosse infrastrutture, lavoro, piani di sviluppo, ma sempre con grande attenzione alla coesione sociale. De Gasperi aveva una visione equilibrata del rapporto tra Stato e mercato, e fu capace di dialogare con il mondo sindacale e imprenditoriale, nella ricerca del bene comune.

Pur essendo un cattolico profondamente credente, De Gasperi fu anche un difensore della laicità delle istituzioni. Rivendicò l’autonomia della politica rispetto alle ingerenze ecclesiastiche, mantenendo un rapporto di rispetto, ma di distinzione, tra la Chiesa e lo Stato. Un equilibrio che ancora oggi è al centro del nostro assetto costituzionale.

Altra lezione fondamentale: per De Gasperi la politica era servizio, non potere. Non usò mai toni populisti, non cedette al personalismo né alle scorciatoie demagogiche. Per lui contavano l’etica pubblica, la preparazione, il senso dello Stato. “Politica come forma alta di carità”, ripeteva spesso. E questo rimane, forse, il messaggio più potente e attuale.

In tempi di crisi delle istituzioni e sfiducia nella politica, l’eredità di De Gasperi parla ancora a tutti noi: ci ricorda che è possibile essere rigorosi senza essere autoritari, idealisti senza essere ingenui, costruttori di pace anche nei momenti più bui. Un lascito che chiede di essere raccolto.

giovedì 14 agosto 2025

La lunga marcia per salvare Roma



Nel cuore dell’estate del 207 a.C., mentre la guerra contro Annibale imperversava su suolo italico, un corpo scelto di soldati romani si preparava a una delle marce più faticose e decisive della storia antica. Guidati da Gaio Claudio Nerone sei mila uomini partirono dalla Lucania, terra aspra e montuosa del Sud Italia, con un unico obiettivo: raggiungere Asdrubale Barca, il fratello di Annibale, prima che potesse unirsi all’esercito cartaginese e cambiare le sorti della guerra. La strada non era semplice. Attraversarono montagne scoscese, fitte foreste e vallate ostili, sempre all’erta contro imboscate e sorprese nemiche. La marcia si svolse spesso di notte, con il silenzio rotto solo dal rumore attutito dei passi e dal respiro affaticato dei soldati, mentre il sole ancora non sorgeva e l’aria fresca portava un’illusione di sollievo. Ogni giorno coprivano distanze immense, fino a cinquanta chilometri, una fatica enorme per uomini armati e carichi, ma la disciplina e il senso del dovere li sostenevano. La mente di questi miles romani era concentrata sul compito: la puntualità, la perseveranza e la qualità del cammino erano la loro forza. Non era la gloria immediata o il bottino a guidarli, ma la consapevolezza che ogni passo li avvicinava alla salvezza di Roma. Durante la marcia, il caldo estivo tormentava i corpi, la sete era un nemico invisibile e il terreno accidentato metteva a dura prova le loro capacità. Eppure, nessuno si lasciava scoraggiare. Dopo sei giorni estenuanti, il 23 giugno del 207, i soldati arrivarono al fiume Metauro, dove Asdrubale li aspettava con un esercito numeroso e potenti elefanti da guerra. La marcia non era stata solo un percorso fisico, ma una prova di resistenza, strategia e sacrificio. L’abilità dei comandanti nel guidare queste truppe in condizioni estreme si rivelò decisiva per la vittoria che seguì. Grazie a questa marcia, Roma evitò un disastro, sconfiggendo un nemico temibile e consolidando la propria supremazia nella penisola. La lunga marcia dei miles romani non fu solo uno spostamento geografico, ma un simbolo della tenacia e dell’anima di un popolo che affrontava la guerra con coraggio, umiltà e dedizione assoluta. La loro impresa rimane ancora oggi una delle più straordinarie testimonianze di forza e disciplina militare dell’antichità.

sabato 9 agosto 2025

il famigerato patto Ribbentropp Molotov


 

Il 23 agosto 1939, mentre l’Europa tratteneva il respiro in attesa della guerra, a Mosca si firmava un accordo che avrebbe sancito uno dei più spietati tradimenti della storia moderna. Il Patto Molotov-Ribbentrop, ufficialmente un semplice trattato di non aggressione tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista, fu in realtà un cinico patto segreto di spartizione territoriale.

Dietro le fotografie ufficiali, le strette di mano forzate e le dichiarazioni diplomatiche si celava un documento occulto che ridisegnava l’Europa orientale come se fosse una scacchiera, ignorando del tutto l’esistenza di nazioni, popoli e diritti. Nessuno sapeva che allegato al testo principale c’era un protocollo segreto: un foglio firmato nella notte, tra Stalin, Molotov e Ribbentrop, che divideva Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Bessarabia tra le due potenze, assegnando zone d’influenza come si dividono bottini tra ladri.

La Polonia, già sotto pressione tedesca, venne spezzata in due: a ovest la Germania, a est l’URSS. Estonia, Lettonia e Lituania finirono nella zona sovietica. La Bessarabia fu promessa a Mosca. L’accordo prevedeva persino il futuro assalto alla Finlandia. In meno di un mese, il piano si trasformò in realtà. Il 1° settembre, Hitler invadeva la Polonia da ovest. Il 17 settembre, Stalin entrava da est. Il paese fu cancellato dalla carta geografica. Seguì l’occupazione dei Paesi Baltici, la guerra d’inverno contro la Finlandia, l’annessione di territori rumeni. Tutto come stabilito. Tutto come pianificato nell’ombra.

Ma il mondo non lo sapeva. Per decenni, quel protocollo fu negato, nascosto, manipolato. Mosca giurava che non esistesse. Chi osava insinuarne l’esistenza rischiava la censura, l’arresto, l’esilio. Gli archivi erano sigillati, le verità sepolte sotto tonnellate di propaganda. Solo con il crollo del regime sovietico, cinquant’anni dopo, nel 1989, vennero alla luce le prove definitive: copie originali, testimonianze, confessioni. E in quell’anno simbolico, proprio il 23 agosto, due milioni di cittadini baltici formarono una catena umana lunga 600 km, da Vilnius a Tallinn, per denunciare la menzogna e rivendicare la verità.

Il 24 dicembre 1989, con il mondo che ormai guardava oltre la cortina di ferro, il Parlamento sovietico fu costretto ad ammettere ufficialmente l’esistenza del protocollo segreto. Una riga secca, laconica: «Quel documento non ha mai avuto valore legale.» Ma aveva già avuto un valore devastante: aveva permesso invasioni, occupazioni, deportazioni, massacri. Aveva disegnato un’Europa sotto ricatto, con una linea invisibile tracciata nel sangue.

Il Patto Molotov-Ribbentrop non fu solo una pagina di diplomazia. Fu una complicità criminale tra due regimi totalitari che, per convenienza politica, decisero di fare a pezzi un continente. La sua parte segreta — per anni negata, occultata, rimossa — è la prova che la storia si può scrivere con l’inchiostro, ma anche con la menzogna. E che la verità, quando emerge, lo fa sempre con il fragore delle catene spezzate.

Oggi, a distanza di oltre ottant’anni, il fantasma di quel patto non è del tutto sepolto. Quando la Russia parla di “zone d’influenza”, invade territori sovrani, nega l’esistenza storica di intere nazioni — come avvenuto con l’Ucraina — riemerge la stessa logica che alimentava il protocollo del 1939: decidere confini a tavolino, calpestando popoli, storie, diritti. Cambiano i nomi, i leader, le bandiere. Ma la tentazione di ridisegnare il mondo con la forza e l’inganno resta intatta. La memoria serve esattamente a questo: a riconoscere, quando riappare, lo stesso veleno sotto nuove maschere.


mercoledì 6 agosto 2025

Hiroshima e il peso della storia


 

Oggi il mondo ricorda lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima, simbolo del potere distruttivo dell’uomo e di una guerra che ha segnato per sempre l’umanità. È giusto riflettere sul dolore, sul crimine che è stato commesso e sul pericolo permanente legato all’uso del nucleare come arma. Tuttavia, si riflette ancora poco su come si sia arrivati a quella tragica decisione.

Nel cuore della Seconda guerra mondiale, anche la Germania nazista era sulla strada dell’atomo. Le V1 e le V2 di Hitler erano armi anticipatrici, e se la bomba fosse arrivata nelle sue mani prima che in quelle degli Stati Uniti, l’esito sarebbe stato davvero apocalittico. Non meno pericolosa era la visione del Giappone imperiale: una cultura militare in cui la morte aveva un valore superiore alla vita, esaltata dai kamikaze, nati proprio in quel contesto.

La bomba fu usata dagli americani per fermare una guerra che, altrimenti — secondo molti storici — avrebbe richiesto lo sterminio pressoché totale della popolazione giapponese, a causa della resistenza fanatica e dell’indottrinamento collettivo. Per comprendere appieno la portata di quella visione, basta guardare all’orrore della battaglia di Okinawa: uno scontro durato 82 giorni, teatro del più grande massacro civile del conflitto nel Pacifico, con oltre 200.000 vittime tra militari e civili giapponesi.

La bomba atomica fu, piaccia o meno, il cosiddetto “male minore”.

Questo non cancella il dolore, né assolve l’orrore. Ma ci ricorda che la storia è fatta anche di scelte tragiche, spesso senza alternative semplici. Il feroce nazionalismo giapponese, unito a una cieca idea di superiorità, aveva sacrificato ogni forma di buon vivere, trasformando la morte in culto e l’impero in ideologia assoluta.

Ricordare Hiroshima significa anche riconoscere come quella data fu l’epilogo di una filosofia imperialista e nazionalista portata all’estremo. E ci insegna, ancora oggi, quanto sottile sia il confine tra civiltà e abisso, e quanto la pace vada protetta con consapevolezza, memoria e verità storica, evitando il più possibile ogni deriva nazionalista.

lunedì 4 agosto 2025

La verità rende liberi. Tre secoli fa il processo Zenger in America stabilisce un principio


 

La genesi della libertà di stampa in America precede la nascita degli Stati Uniti, radicandosi già all’inizio del XVIII secolo, quando le tredici colonie erano ancora sotto il dominio della Corona britannica. Un evento fondamentale in questo percorso fu il processo a John Peter Zenger, avvenuto nel 1735 a New York.

Zenger, tipografo e giornalista tedesco immigrato, pubblicava il settimanale New York Weekly Journal, in cui denunciava la corruzione del governatore coloniale William Cosby. Accusato di diffamazione sediziosa, venne arrestato e processato, nonostante gli articoli fossero veritieri. All’epoca, infatti, in base al diritto inglese, la verità non costituiva una difesa sufficiente contro l’accusa di diffamazione contro l’autorità.

Il caso ebbe un esito sorprendente: Zenger fu assolto, grazie alla difesa dell’avvocato Andrew Hamilton, che sostenne il principio secondo cui “la verità non è diffamazione”. Questo verdetto segnò una svolta: pur non modificando formalmente le leggi, stabilì un precedente fondamentale per la libertà di stampa nelle colonie americane.

Da quel momento, l’idea che la stampa potesse e dovesse svolgere un ruolo di controllo nei confronti del potere cominciò a radicarsi nella cultura politica coloniale. Questo principio si sarebbe poi consolidato, qualche decennio dopo, nella Costituzione degli Stati Uniti, con il Primo Emendamento (1791), che sancisce esplicitamente la libertà di stampa come diritto fondamentale.

Il processo Zenger, quindi, è considerato un momento fondativo della democrazia americana e dell’idea moderna di libera informazione, anticipando di oltre mezzo secolo i principi costituzionali che ne sarebbero derivati.

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