Van Basten vs Sacchi per chi ha
vissuto la fine degli anni ottanta l’idiosincrasia tra il cigno di Utrecht e l’Arrigo
di Fusignano era non solo nota, ma rischiava di minare i successi di una
squadra per certi versi fu irripetibile. Van Basten per chi ha avuto la fortuna
di poterlo ammirare a San Siro, mi ricordo la quaterna messa in carniere contro
il Vitocha ancora bene, era un centravanti incredibile capace di muoversi con una
leggerezza senza pari e di inventare parabole impossibili. Un vero peccato che
abbia finito la sua avventura calcistica per via di caviglie sottili e leggere.
La sua rete contro la Russia in finale dell’europeo 1988 è una delle migliori
mai viste insieme a quella di Sheva contro la Juve a San Siro. Sacchi era un
mister ieratico, maniacale nei suoi dettami, e un tipo molto dispotico, ma la
sua capacità di costruire un nuovo modo di intendere il calcio ha aperto un’era
nuova. Scudetti, ma anche molte coppe, quelle che hanno costruito il mito del
Milan europeo e non poteva essere altrimenti per la prima squadra italiana a
mettere in bacheca la Coppa dei campioni. Non so quale possano essere i
risvolti e le confessioni di Marco, e forse anche francamente me ne infischio, ma
quello che è certo è che per noi milanisti è stato un bel periodo fatto di calcio
champagne e di voglia di andare allo stadio, quella che ultimamente manca ma
per la quale si prova una tremenda nostalgia
giovedì 27 febbraio 2020
martedì 25 febbraio 2020
Prima i giornali ----- piemontesi
Il Risorgimento e la definizione dello Stato Italiano oltre che sui campi di battaglia e nelle sedi politiche iniziò anche e soprattutto grazie alla carta stampata e fu proprio il Piemonte il luogo in cui questa libertà pur con qualche divieto fu una palestra utile per dare senso all’unità della nostra Nazione. Tutto questo nonostante gli editti sulla legge di stampa del 1852 e del 1858, in questi casi, le pressioni da parte dello Stato Francese e di Napoleone III in particolare, dopo l’attentato Orsini, furono disattese. I giornali erano diventati una sorta di strumento di organizzazione e di propaganda elettorale e di orientamento delle politiche di opinione. E che il Piemonte fosse liberale lo testimonia uno studio di Guglielmo Stefani, poi fondatore dell’omonima agenzia di informazione, che stabiliva che a fronte dei 68 periodici del lombardo veneto, dei 27 della toscana e dei 16 di Roma, ben 117 provenivano dal Regno di Sardegna di cui solo 53 a Torino. Ricordiamo alcuni dei nomi di quei periodici tra cui i più famosi erano: Gazzetta Piemontese, Gazzetta del Popolo, Opinione, Armonia, Unione, Voce della libertà, Campanone, Espero, ecc. La crescita del giornalismo piemontese ebbe anche un riflesso nell’industria tipografica, sempre parametrati al 1858 a Milano in quel periodo erano attive 37 tipografie per un numero di addetti pari a 600 unità, a Torino nello stesso tempo erano 32 le tipografie che avevano però un numero maggiore di addetti (780)con 47 torchi meccanici contro i 6 di Milano. Al giornalismo erano poi associati le figure degli esuli provenienti dagli altri stati italiani: Saventa, Ferrara, De Sanctis, solo per fare alcuni nomi. Accanto ai fogli di natura politica e istituzionale trovarono anche spazio i fogli umoristici e satirici le due testate più famose in tal senso furono “Il Pasquino” e “il Fischietto”. Il Fischietto, trisettimanale, fu diretto dal poeta Carlo A Valle e poi da Cesana e toccò presto le 2500 copie un numero discreto anche per quel periodo che si avvalse della collaborazione dei migliori disegnatori italiani del periodo come Redenti, Virginio e Teja. Se il Fischetto era di natura politica il Pasquino aveva invece i crismi della satira di costume, apparve nel 1856, e riuscì a interessare molto parlando di mode, di costume e di fatti teatrali: Per una volta tanto Torino meglio di Milano
giovedì 20 febbraio 2020
Tutta colpa della Svevia
Non passa giorno se non settimana
in cui la crassa ignoranza della storia non prenda i titoli dei giornali o
delle notizie sui quotidiani. Il deficit culturale che trasuda l’italico popolo
è sempre più evidente, storia manipolata a piacimento ma anche errori marchiani.
E se da un lato abbiamo il vate della cultura come il professore Barbero che
distilla piacevoli racconti e narrazioni che appassionano molti, e il buon
Angela che racconta da par suo la storia del passato, dall’altro abbiamo episodi
che dire disarmanti è dir poco. Storie romanzate come quelle di Scurati vincono
premi pur infarcite di grossolani errori, come rimarcava Galli della Loggia. Ma
il peso del passato, le storie di quotidianità che sembrano anche simili all’attualità
incuriosiscono. Video e nuove forme di tecnologia comunicativa possono essere
il giusto viatico per aumentare curiosità e attenzione ma forse il vero futuro
di questa branca della cultura dovrà risiedere nei divulgatori. La storia ha un
fascino tutto suo se viene raccontata da una persona che sa metterne in luce
pregi e difetti, se sa infarcire il racconto, come gli antichi menestrelli che
girovagavano i villaggi, antesignani di internet, di passione e al tempo stesso
di mistero. Il futuro di un popolo si vede proprio in questo che sappia
valorizzare il proprio passato attraverso una categoria, forse vituperata ma
che deve diventare unica: l’insegnante. La storia non dovrà essere un ripiego perché
non si sa far altro, la storia dovrà avere una sua preparazione specifica che
coniughi conoscenza e narrazione, solo così potremmo evitare i pasticci della
targa di Parma tanto per fare un esempio, Svevia e non Svezia, e non è solo una
questione di una consonante
venerdì 14 febbraio 2020
Un progetto infinito
Tra i grandi piemontesi possiamo annoverare senza ombra di dubbio Alessandro Antonelli che nasce alla fine del 1700, più precisamente nel 1798 in quel di Ghemme nel novarese e si laurea a Torino in architettura nel 1824. Tra le sue opere vale la pena di ricordare la cupola del San Gaudenzio di Novara e la Casa del Formaggio per via della sua soluzione triangolare a Vanchiglia 6 piani. Nel 1862 viene incaricato a Torino di progettare un edificio di culto dall’Università Israelitica. La comunità ebraica torinese aveva emesso un bando nel 1862 che era andato deserto. L’Antonelli si mise subito all’opera e in pochi mesi, soltanto sei, elaborò il progetto, un manufatto di ridotte dimensioni con un quadrato di 37 metri. L’approvazione giunse nel 1863, ma nei successivi anni Antonelli mise mano più volte al progetto per aumentarne dimensioni e struttura. Tutto ciò comportò naturalmente una serie di variazioni che mandarono in difficoltà la proprietà, e dopo quattro anni di tira e molla il tutto era lievitato troppo. L’opera di 113 metri rispetto ai 47 iniziali era diventata una macchina succhia-soldi e pertanto il tutto venne bloccato per sei lunghi anni, in questo caso la burocrazia non c’entrava nulla, contavano le finanze. Tre le soluzioni che vennero prospettate: l’abbattimento di quanto realizzato, un ridimensionamento della struttura oppure la vendita dello stesso comprensivo anche del progetto al Comune. Le trattative non furono semplici ma si concretizzarono nel 1878 quando l’architetto ormai ottantenne non ci sperava più, venne anche variata la destinazione d’uso da edificio di culto a sede del Museo dell’Indipendenza Nazionale. Perizia e varianti durarono lo spazio di altri otto anni e finalmente nel 1886, il 13 marzo, venne approvato il progetto definitivo, quello pressappoco uguale all’attuale definizione della struttura con un’altezza di 167 metri e che fa della Mole il più alto edificio in muratura. Antonelli muore nel 1888 all’età di novant’anni, succede alla direzione del cantiere il figlio Costanzo che rimane in carica fino all’alba del 1900, viene poi sostituito da altri tecnici che stravolgono un po’ il progetto originario e alla fine nel 1906 viene ultimato. La Mole oggi è sede del Museo del Cinema e di sicuro la storia della sua progettazione e costruzione meriterebbe un film
domenica 9 febbraio 2020
Un piemontese doc Silvio Pellico
Il 31 gennaio del 1854 muore a Torino Silvio Pellico, Poeta e patriota piemontese era nato a Saluzzo dal commerciante piemontese Onorato Pellico e da Margherita Tournier. Dopo i primi studi a Pinerolo in seguito al fallimento dell’attività paterna Silvio prima si recò a Torino poi andò in Francia a Lione per imparare meglio l’attività commerciale, ma qui, invece di aumentare le competenze di vendita, si dedicò agli studi classici. In seguito seguì la famiglia a Milano nel 1809 dove si trasferì al seguito del padre, che aveva trovato lavoro nel pubblico impiego. Nella città lombarda frequentò Vincenzo Monti e Ugo Foscolo con cui strinse un sodalizio culturale scrivendo tragedie. La sua Francesca da Rimini venne rappresentata proprio a Milano nell’agosto del 1815. L’anno dopo si trasferì ad Arluno dove divenne precettore dei figli del conte Porro Lambertenghi. Ma la cultura era la sua passione e con Romagnosi, Berchet e Confalonieri partecipò a circoli in cui si sviluppavano idee risorgimentali. Entrò nella setta segreta dei Federati e venne catturato dalla Polizia austriaca, tradotto in carcere a Venezia subì il processo e venne condannato a morte, pena poi tramutata in carcere duro per 15 anni nella fortezza austriaca dello Spielberg in Moravia. Qui rimase nove anni in detenzione e scrisse nella fortezza il suo memoriale: “le mie prigioni” un lavoro che è diventato poi una sorta di memorandum per il periodo risorgimentale e come ammise anche quella vecchia volpe del cancelliere austriaco Metternich le memorie ebbero grande presa tra il pubblico non solo irredentista. Nel 1830 tornò alla sua vecchia passione, le arti e la scrittura di tragedie. Venne assunto dai Marchesi di Barolo e nel Palazzo di Torino rimase fino alla sua dipartita. Carlo Alberto di Savoia nel 1838 lo gratificò con una pensione annua di 600 lire. Nel Palazzo in cui esalò l’ultimo respiro venne poi affissa una targa dal contenuto vago e anche inquietante: “Silvio Pellico abitò questo palazzo molti anni e ivi morì il 31 gennaio 1854 per decreto del Comune” senza scomodare nessun dietrologo possiamo concordare che la sua morte fu naturale e non intervennero fattori esterni, Metternich, non aveva più alcun potere fin dal 1848.
lunedì 3 febbraio 2020
o tempora o mores
Ceccherini piu che un calciatore un comico amico di
Pieraccioni e interprete di diversi film di successo, ma in questo caso
risponde anche al nome di un promettente difensore della Viola. Famoso, certo
non ancora per l’arte pedatoria, ma perché in calce alla partita contro la Juve
ha sbottato contro un tifoso sui social. Già i social croce e delizia di tutti,
dovrebbero essere un gioco e invece sono diventati uno sfogatoio incredibile di
frustrazioni e di invettive. E più l’argomento è futile più e facile trovare
motivi di scontro. Ogni persona si sente
autorizzata di insultare, dall’altro capo della tastiera il malcapitato di
turno, fosse anche un rodato calciatore. Aveva ragione Umberto Eco il mezzo ha
dato parola a una platea di ……… E così ti capita di vedere un giocatore una
volta irraggiungibile duettare con il primo che passa. Al netto della querelle
di cui si ha poco interesse, ognuno avrà le sue ragioni, rimane il duetto a
tempo di insulti. O tempora o mores
sabato 1 febbraio 2020
Il cioccolato piemontese
Che il cioccolato piemontese sia uno dei migliori è unanimemente risaputo, una fama meritata frutto anche di un vasto sistema di piccole e medie imprese che da sempre costituiscono l’ossatura del sistema produttivo. I cioccolatini migliori tuttavia sono quelli fatti a mano in piccoli laboratori artigianali, nomi come quelli di Peyrano e Giordano riscaldano subito il cuore e fanno venire l’acquolina in bocca per la qualità del prodotto. Piemonte terra di cioccolatai è anche sancito dalla storia, risale infatti al 1678 la prima patente rilasciata al cicolatè “Antonio Arfi” autorizzato a vendere la bevanda e a deliziare i palati dei piemontesi e non solo. Se la vendita era un atto sancito fin dai tempi più antichi, la produzione industriale su larga scala è invece un retaggio del 1800 con la costruzione della prima macchina idraulica chiamata a raffinare il cioccolato con lo zucchero, opera, ovviamente e non poteva essere altrimenti, di un piemontese che si chiamava Doret. In quell’epoca prendono piede nomi che faranno poi la storia del cioccolato made in Piemonte: Caffarel, Prochet Gay Talmone, Moriondo e Gariglio. Albert Valery scrive nel 1843 che il cioccolato di Torino è uno dei migliori d’Italia e come si può immaginare iniziano anche a crescere le imitazioni, una di quelle più famose fu effettuata da un certo Cailler che impiantò una fabbrica in svizzera a Vervey per produrre l’ambito prodotto e possiamo dire ancora famosa oggi per la qualità del suo prodotto. Viene da sorridere a pensare che proprio noi piemontesi abbiamo insegnato agli svizzeri le prelibatezze del cioccolato. Ma nel 1867, ecco l’ingegno, la Porchet Gay ebbe l’idea di mescolare le nocciole al cioccolato lanciando di fatto un prodotto tipicamente piemontese: i gianduiotti che vennero ufficialmente consacrati nel 1869, più precisamente il 16 di febbraio. Il testo ufficiale del decreto che ne riconosce i crismi è questo:” Noi gianduia Primo unico e vero accordiamo a Caffarel Porchet Gay questa pergamena economica perché lippis et tonsoribus sia noto aver egli ben meritato alla nostra Fiera Fantastica del 1869 Dait dal Ciochè San Gian Merco Scurot 1869. Insomma quella del cioccolato e del gianduiotto è una vera e propria tradizione secolare
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