domenica 28 settembre 2025

Coppa di divisione battaglia vera e goal all'ultimo respiro


Il futsal ad Asti è un dogma. È passione, è voglia di giocare, è desiderio di combattere. In campo, i giocatori si conoscono tutti. E anche se si tratta “solo” della Coppa della Divisione e non del campionato, la voglia di ben figurare è patrimonio comune. Quella andata in scena nel cuore del settembre astigiano non è certo una partita qualsiasi. Le squadre si affrontano a viso aperto, in maniera intensa e ruvida. Non c’è spazio per troppa tattica, ma per lo scontro vero, giocato sul filo dei nervi e dei contrasti.

Il match si sblocca grazie a Francalanci, autentico The Wall della retroguardia ma anche decisivo in zona gol: è lui a firmare l’1-0 per gli Orange. Il pareggio arriva su una sfortunata autorete di Angelino, che riporta la sfida in equilibrio, dopo che Amico para anche un tiro di rigore.

La gara resta vibrante, intensa, combattuta su ogni pallone. Il copione resta incerto fino a 38 secondi dalla fine, quando Torino trova il gol del sorpasso, punendo una leggerezza e mettendo una seria ipoteca sul passaggio del turno.

Ma il futsal non è mai finito finché non suona la sirena. E a dieci secondi dalla fine, ecco il colpo di scena: Piazza, bomber vero, in versione Condor, sfrutta il portiere di movimento e firma il più facile dei tap-in per il 2-2 finale.

Un pareggio tosto, giusto, spettacolare, che regala emozioni fino all’ultimo secondo.
A qualificarsi è Patanè, ma il futsal astigiano può sorridere: se questo è l’antipasto, il campionato sarà tutto tranne che una passeggiata per chi affronterà queste squadre

mercoledì 24 settembre 2025

l'uomo che veniva dal freddo Anders Lassen


 Era nato in Danimarca, in una casa borghese, con un futuro già scritto tra le comodità e i rituali della buona società. Ma Anders Lassen non aveva mai amato troppo le strade già battute. Era alto, riservato, con uno sguardo che non cercava attenzione, ma osservava. Quando la guerra avvolse l’Europa, lui non rimase fermo.

Aveva poco più di vent’anni quando lasciò la Danimarca per arruolarsi con gli inglesi. Il suo Paese era occupato, e molti avevano scelto di non reagire. Lui no. Anders si unì alle forze speciali britanniche, divenne commando, poi entrò nella temuta e rispettata Special Boat Section, gli uomini d’élite che agivano di notte, nell’ombra, tra mare e costa. Nessuna medaglia, nessun clamore. Solo missioni, quasi sempre impossibili.

Combatté nei Balcani, in Grecia, tra le isole dell’Egeo. Sempre silenzioso, sempre in prima linea. I rapporti parlavano di lui come di un soldato dal sangue freddo e dal coraggio implacabile. Aveva un modo tutto suo di affrontare la paura: ci camminava dentro.

Fu così anche in Italia, nei primi mesi del 1945, quando il nord del Paese era ancora sotto il controllo tedesco. Le forze alleate avanzavano, ma il terreno era difficile, soprattutto nella zona di Comacchio, tra canali, valli e fortificazioni nascoste. A Lassen venne affidata una missione precisa: neutralizzare un avamposto tedesco e aprire la strada per le truppe in arrivo.

All’alba del 9 aprile, Anders e i suoi uomini sbarcarono tra le nebbie basse della laguna. Lui era in testa. Le mitragliatrici nemiche iniziarono subito a sparare. Venne ferito. Avrebbe potuto fermarsi, cercare riparo. Invece continuò ad avanzare, trascinandosi in avanti, guidando i suoi compagni come se nulla lo potesse fermare.

Raggiunse la postazione nemica. Morì lì, nel silenzio dopo l’assalto, sapendo che la missione era compiuta. I suoi uomini erano salvi. La via era aperta.

lunedì 22 settembre 2025

La diagnosi fatale di Betcherev - la discrezione ti salva la vita


 

Nel dicembre del 1927, la Russia sovietica era già profondamente segnata dall’ombra crescente di Iosif Stalin. Il potere si stava concentrando nelle sue mani con una rapidità feroce, e ogni voce fuori dal coro cominciava a diventare pericolosa. In questo contesto cupo, Vladimir Michajlovič Bechterev, uno dei più rispettati neuropsichiatri dell’epoca, ricevette un improvviso ordine: recarsi a Mosca per visitare un paziente molto particolare.

Bechterev, scienziato razionale, abituato a parlare con franchezza e osservare con rigore, era consapevole dei rischi impliciti in quell’invito. Sapeva che nessuna convocazione proveniente dal vertice del potere era priva di conseguenze. Eppure partì, fedele alla sua vocazione scientifica più che al buon senso politico.

Il paziente che lo attendeva era Stalin in persona. Il dittatore soffriva di una rigidità alla mano sinistra — forse il sintomo di un disturbo neurologico più profondo — ma ciò che colpì maggiormente Bechterev non fu la mano, bensì l’espressione, l’atteggiamento, l’intera presenza di quell’uomo. Durante l’esame clinico, Bechterev colse segnali evidenti di paranoia, rigidità psichica, diffidenza patologica. Stalin non era solo un uomo con un problema fisico: era, secondo il giudizio clinico del medico, un caso psichiatrico.

Rientrato a Leningrado, Bechterev, senza riserve, condivise le sue impressioni con alcuni colleghi. Fece una battuta amara, quasi ironica, che però si rivelò letale: disse di aver appena esaminato “un paranoico con una mano secca” — e quel paranoico era Stalin. In un regime dove anche il sospetto valeva una condanna, la frase fu riferita, registrata, archiviata nei meccanismi invisibili della repressione.

Il giorno seguente, Bechterev morì improvvisamente. La causa ufficiale fu un attacco cardiaco, ma le circostanze furono talmente sospette da far nascere, già allora, il sospetto di un omicidio. Non vi fu autopsia. Il suo nome cominciò lentamente a scomparire dai testi ufficiali, dalle citazioni scientifiche, dalla memoria pubblica. La sua morte, come quella di tanti altri intellettuali negli anni successivi, fu uno dei primi segnali di ciò che stava per accadere: la trasformazione definitiva del potere in culto, e del dissenso in crimine.

Bechterev pagò con la vita la propria onestà intellettuale. Non fu ucciso per un gesto politico, ma per aver detto la verità. Una verità clinica, osservata scientificamente, eppure troppo pericolosa da pronunciare ad alta voce. La sua diagnosi non fu scritta su carta, ma si diffuse per via orale tra colleghi e allievi, diventando leggenda accademica: un ammonimento sulla fine che spetta a chi, sotto un regime totalitario, osa guardare il potere con occhi lucidi e dirne il vero volto.

Così morì uno dei padri della neuropsichiatria russa, non per un errore medico, ma per un eccesso di lucidità.


giovedì 18 settembre 2025

“I have not yet begun to fight!” — Lo spirito di John Paul Jones, tra storia e cinema


I have not yet begun to fight!”
(
Non ho ancora iniziato a combattere!)

Questa frase, pronunciata nel pieno di una battaglia navale apparentemente persa, è passata alla storia come simbolo di sfida, coraggio e resistenza. Le parole sono di John Paul Jones, leggendario comandante della Marina americana, protagonista di una delle più straordinarie imprese della Guerra d’Indipendenza contro il Regno Unito.

Nel 1779, al comando della Bonhomme Richard, Jones affrontò in mare aperto la più potente HMS Serapis. La sua nave era in fiamme, le perdite gravi, la resa sembrava inevitabile. Ma alla richiesta britannica di arrendersi, rispose con quella frase immortale. E riuscì, contro ogni pronostico, a vincere lo scontro e catturare la nave nemica.

Quello spirito indomito, capace di sfidare la sconfitta con dignità e audacia, riemerge anche nella cultura popolare. Nel film Battleship (2012), la Marina statunitense fronteggia un’invasione aliena. Una delle prime navi a rispondere all’attacco è proprio la USS John Paul Jones: un cacciatorpediniere moderno che porta il suo nome e ne onora il lascito. Come il suo omonimo, anche questa nave non si arrende, combatte fino all’ultimo, simbolo di una tradizione che non conosce resa.

John Paul Jones non fu solo un eroe militare, ma un precursore della Marina americana, un uomo che credeva nella libertà, nella disciplina e nella forza del mare come strumento di indipendenza. La sua vita fu breve, ma la sua leggenda è ancora viva ogni volta che qualcuno, di fronte alla sconfitta, sceglie di non mollare.


martedì 16 settembre 2025

Le guerre nascono sempre per motivi economici - la guerra dell'Oppio



Le guerre, spesso, non nascono solo da conflitti politici o ideologici, ma da interessi economici e dalla volontà di espandere l’influenza commerciale. È proprio questo il caso della Prima Guerra dell’Oppio, scoppiata nel 1839 tra la Gran Bretagna e la Cina.

Nel corso dell’Ottocento, il Regno Unito importava grandi quantità di tè, seta e porcellane dalla Cina, ma il governo cinese permetteva pochi scambi commerciali, e la bilancia dei pagamenti era fortemente sfavorevole agli inglesi. Per riequilibrarla, gli inglesi iniziarono a esportare illegalmente oppio in Cina, coltivato in India, generando una vera e propria dipendenza di massa.

Il governo cinese, preoccupato per gli effetti sociali devastanti e per la perdita di argento, cercò di fermare il traffico. Il commissario Lin Zexu ordinò la confisca e la distruzione di tonnellate di oppio a Canton. La risposta britannica fu militare.

Dopo una rapida guerra, la Cina fu sconfitta e costretta a firmare nel 1842 il Trattato di Nanchino: dovette aprire nuovi porti al commercio europeo, pagare indennizzi e cedere Hong Kong alla Gran Bretagna. Fu l’inizio della lunga fase di penetrazione occidentale in Cina e del suo “secolo delle umiliazioni”.



domenica 14 settembre 2025

Coppa di Divisione buona la prima 6 a 0 all'Itar


 

Ci siamo: inizia una nuova stagione da vivere con passione a bordo parquet!
Nella passata stagione siamo arrivati a un soffio dal realizzare il sogno del ritorno in Serie A2 Élite, un traguardo sfumato davvero per un’inezia. Ma ciò che resta — ed è ancora più importante — è la crescita di un gruppo giovane e determinato, e la conferma di una filosofia societaria solida, che non cambia.
Durante l’estate ci sono stati alcuni cambiamenti: qualche rientro, qualche cessione, ma lo spirito Orange è sempre vivo e ben presente. La prima uscita ufficiale, nella Coppa di Divisione, non ci ha portato lontano: Fossano è dietro l’angolo. Ma nel settembre astigiano, che sa sempre regalare il lato più genuino e spontaneo del nostro territorio, è arrivata una vittoria preziosa, portatrice di ottime e confortanti indicazioni in vista del proseguo della stagione. Non è tanto il rotondo 6-0 ottenuto contro una buona squadra come l’Itar a far notizia, quanto il modo in cui è maturato il risultato. Per la cronaca: tripletta di Ibra, gol di Vitellaro, Angelino e Caracciolo. Tra quindici giorni ci si rivede in casa, contro Isola, per l’ultima amichevole prima del campionato. L’Orange c’è Ci aspetta un anno lungo, impegnativo, ma ricco di promesse.



mercoledì 10 settembre 2025

Guerra all'est il caso polacco


 

Russia vs Polonia non è una novità dell’ultima ora ma prima i polacchi e poi i russi sono sempre stati l’uno contro l’altro per il dominio delle terra che di volta in volta hanno fatto parte dell’impero tedesco e dell’urss poi. Nel corso dei secoli diversi gli scontri con i polacchi che cercarono indipendenza e autonomia. La battaglia di Racławice ebbe luogo il 4 aprile 1794 vicino al villaggio omonimo, nel sud della Polonia, durante l’Insurrezione di Kościuszko, una rivolta patriottica contro la dominazione russa e prussiana. Fu uno degli scontri iniziali dell’insurrezione, e vide opporsi l’esercito ribelle polacco, comandato da Tadeusz Kościuszko, alle truppe dell’Impero Russo. Nonostante i polacchi fossero numericamente inferiori e meno equipaggiati, ottennero una vittoria tattica significativa, grazie anche al coraggio dei contadini armati di falci, noti come kosynierzy. Kościuszko impiegò con abilità la sua esperienza militare (maturata anche nella guerra d’indipendenza americana) per sorprendere i russi, rafforzando il morale del popolo polacco e dando slancio alla ribellione. Durante la battaglia, si distinse il gesto eroico di Bartosz Głowacki, un contadino che riuscì a conquistare un cannone nemico: divenne simbolo del coinvolgimento popolare nella lotta. Anche se la vittoria non fu decisiva sul piano strategico, Racławice divenne un simbolo della resistenza polacca e dell’unità tra nobili e popolo. È ancora oggi ricordata come un momento di grande orgoglio nazionale, celebrato anche in arte (celebre il panorama di Racławice a Breslavia) e cultura.

lunedì 8 settembre 2025

9 settembre 1942 Allarme nell Oregon i giapponesi bombardano


Ve lo ricordate “1941 – Allarme a Hollywood”? Quella commedia surreale di Steven Spielberg con John Belushi nei panni dell’aviatore che sorvola la California in preda al delirio per un’invasione giapponese mai avvenuta? Ebbene, qualcosa di simile successe davvero. Non a Hollywood, ma in Oregon, e non nella finzione cinematografica, ma nella realtà della Seconda guerra mondiale, precisamente il 9 settembre 1942.

Quel giorno, un sottomarino giapponese emerse al largo della costa dell’Oregon, aprì il suo hangar interno e fece decollare un piccolo idrovolante, il cui pilota – Nobuo Fujita – sorvolò il territorio americano e sganciò due bombe incendiarie nella foresta vicino a Brookings, nel tentativo di scatenare incendi devastanti e colpire il morale della popolazione americana. Non funzionò. Il terreno era umido, l'incendio fu domato quasi subito. Ma la storia resta: fu l’unico bombardamento aereo sul suolo continentale degli Stati Uniti durante la guerra.

E, a differenza del film, questa storia ha avuto un finale di pace: anni dopo, il pilota giapponese tornò a Brookings, donò la sua katana alla città, piantò un albero della riconciliazione... e chiese che le sue ceneri, nell’atto della sua dipartita, venissero sparse proprio lì, dove aveva tentato di portare la guerra.

domenica 7 settembre 2025

Hic sunt leones - Don Bosco vince il Palio 2025 (quello del 750)

Qui ci sono i leoni. Così si legge sul drappo che sventola per il rione Don Bosco. Un’espressione antica, che un tempo veniva usata sulle mappe per indicare territori sconosciuti, misteriosi, pericolosi. Ma qui, in questa parte di città, non ci sono leoni nel senso classico. Qui c’è qualcosa di diverso. C’è un cavallo che vola, e lo fa sospinto dalle ali dell’entusiasmo, della passione e, soprattutto, dell’appartenenza. Giovanni Atzeni è uno che di Palii ne ha vinti diversi, ma l’emozione di riportarlo a Don Bosco dopo 29 anni la vedi nel suo sorriso e nella sua pacatezza a fine gara. Per Tittia il Palio non è solo una gara, è un rituale, un modo di vivere, un mantra che ritorna, anno dopo anno, curva dopo curva, fino all’arrivo.

Il Palio è un drappo, certo. Un pezzo di stoffa, colorato, dipinto con arte, che si porta a casa come simbolo della vittoria. Ma è anche molto di più. È un segno d’onore, è l’anima di una città che si sfida, si misura e si riconosce. Chi vince non porta via solo un trofeo. Porta con sé l’orgoglio del quartiere, il cuore della gente.

Tutto questo nasce da lontano, da un tempo in cui i grandi imperi erano crollati e gli Stati nazionali ancora non esistevano. Era il tempo del Medioevo, dei comuni, delle contrade, delle piazze vive e dei mestieri tramandati di padre in figlio. In quel mondo, fatto di artigiani, contadini, mercanti e vicinati, le corse come questa servivano a celebrare l’identità, a marcare il territorio, a ricordare che ogni borgo aveva un’anima, un volto, una voce.

E ancora oggi è così. Quando corre il cavallo, non è solo lui a correre. Corre il rione intero. Corrono le emozioni, i sacrifici, le notti passate a preparare ogni dettaglio. Corrono le storie, i volti, le mani che alzano striscioni, che vestono le strade, che stringono altre mani prima del via.

E quando quel cavallo vola, tutti volano con lui.

giovedì 4 settembre 2025

Il Lead Lease Act il vero vincitore della seconda guerra mondiale

 

Nel 2025 ricorrono gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, e, come da tradizione, Russia e Cina celebrano la vittoria con grande enfasi. Parate militari, discorsi solenni, orgoglio nazionale: due superpotenze che si autorappresentano come artefici fondamentali del trionfo contro il nazismo e il militarismo giapponese. Una narrazione forte che ha radici profonde nella memoria collettiva di entrambi i Paesi. Eppure, in mezzo a tutto questo apparato simbolico e retorico, c’è una parte della storia che tende a essere taciuta, o quantomeno ridotta al minimo: il ruolo decisivo giocato dagli Stati Uniti d’America nel sostenere — con armi, mezzi, cibo, tecnologie e denaro — i loro futuri alleati, ben prima di entrare in guerra. Senza quel sostegno, è difficile immaginare che la Russia (allora URSS) e la Cina avrebbero potuto reggere l’urto di Hitler e dell’Impero giapponese.

La chiave di tutto fu una legge: il Lend-Lease Act. Era l’11 marzo 1941. Gli Stati Uniti non erano ancora formalmente entrati nel conflitto — Pearl Harbor sarebbe arrivata solo a dicembre — ma Roosevelt e il suo governo avevano capito che l’isolazionismo non poteva durare. La guerra minacciava di travolgere tutto. Così, con un gesto che cambiò il corso della storia, Washington varò il Lend-Lease Act, una legge che autorizzava la fornitura di aiuti militari a tutti quei Paesi la cui sopravvivenza veniva ritenuta "vitale per la sicurezza degli Stati Uniti".

Non si trattava di un gesto altruistico, ma di realpolitik pura. Aiutare gli altri a combattere Hitler e il Giappone significava anche difendere gli interessi americani, contenere le forze dell’Asse e prepararsi — se necessario — a entrare nel conflitto da una posizione più solida. Da quel momento in poi, milioni di tonnellate di materiali presero il largo verso l’Europa e l’Asia, e con essi un messaggio: la guerra non si sarebbe vinta da soli.

Quando la Germania invase l’URSS nell’estate del ’41, i sovietici si trovarono improvvisamente a dover affrontare una macchina bellica devastante, lanciata in profondità nei loro territori. Le prime settimane furono un disastro: città in fiamme, eserciti in ritirata, milioni di morti o prigionieri. Fu in quel momento critico che l’aiuto americano cominciò ad arrivare. Treni carichi di viveri, convogli navali pieni di mezzi, rifornimenti via Iran e persino attraverso l’Artico. Fu una corsa contro il tempo, fatta di rischi e perdite, ma anche di una logistica colossale.

L’Armata Rossa ricevette oltre 400.000 camion, migliaia di aerei e carri armati, milioni di tonnellate di cibo, carburante, materiale industriale. Strumenti senza i quali sarebbe stato impossibile organizzare le grandi controffensive che, anni dopo, l’avrebbero portata a Berlino. Non fu l’America a combattere a Stalingrado, certo. Ma molte delle truppe sovietiche ci arrivarono a bordo di mezzi americani, con stivali e uniformi made in USA, comunicando con radio prodotte in Michigan.

Anche la Cina ricevette un aiuto sostanziale, benché meno visibile nella narrazione storica. Dal 1937 in guerra contro il Giappone, il governo nazionalista di Chiang Kai-shek combatteva su più fronti: contro un nemico esterno, contro la fame, e anche contro l’opposizione interna dei comunisti di Mao. Per anni, il Paese riuscì a resistere quasi miracolosamente, ma non senza costi enormi. A quel punto, gli Stati Uniti intervennero, convinti che mantenere viva la resistenza cinese fosse strategicamente fondamentale per rallentare l’espansione giapponese.

Gli aiuti arrivarono in gran parte per via aerea, attraversando l’Himalaya in condizioni proibitive, attraverso quella che i piloti chiamavano “The Hump”. Lì passarono aerei, pezzi di ricambio, medicine, armi, viveri, e anche istruttori militari. Nonostante la frammentazione del fronte interno, questi rifornimenti contribuirono a prolungare la resistenza cinese e a mantenere vivo un fronte che altrimenti sarebbe crollato. Oggi, a ottant’anni di distanza, il racconto ufficiale che arriva da Mosca e Pechino tende a mettere in secondo piano questo capitolo scomodo. In Russia, la vittoria viene celebrata come il trionfo dell’eroismo sovietico. In Cina, si racconta di una resistenza popolare guidata (secondo la versione ufficiale) dal Partito Comunista, quando in realtà il grosso degli aiuti americani andava al governo nazionalista. In entrambi i casi, il contributo decisivo degli Stati Uniti è spesso ridotto a una nota a margine. Eppure, i numeri parlano chiaro. Non si tratta di sminuire il sacrificio dei soldati sovietici o del popolo cinese, ma di riconoscere che nessuna vittoria in quel conflitto fu davvero "autarchica".

Il VAR e l’incubo della moviola infinita

  Il VAR, nelle intenzioni dei grandi burattinai del calcio, doveva essere la rivoluzione perfetta. L’arma tecnologica che avrebbe messo fin...