Nel 1898, l’imperatore Guangxu lancia la Riforma dei Cento Giorni, ispirata al modello giapponese Meiji: un piano ambizioso per modernizzare scuola, burocrazia, industria ed esercito. Ma dopo appena tre mesi, l’Imperatrice vedova Cixi, simbolo del conservatorismo Qing, stronca tutto con un colpo di Stato. Guangxu viene esiliato nel suo stesso palazzo, e i principali riformatori messi a tacere.
Due anni dopo, esplode la Rivolta dei Boxer: un’insurrezione nazionalista e xenofoba che prende di mira i missionari cristiani e le presenze economiche straniere, viste come causa del degrado economico locale. Cixi, nella speranza di ristabilire un equilibrio anti-occidentale, decide di appoggiare i Boxer. Ma è un grave errore strategico: l’intervento armato dell’Alleanza delle Otto Nazioni devasta Pechino, costringe l’impero Qing a pesanti risarcimenti e impone un’umiliante occupazione straniera.
Quel fallimento dimostra che il conservatorismo rigido e isolazionista non porta buoni frutti. Il tentativo di proteggere l’ordine antico finisce per accelerarne il crollo. Eppure, proprio dopo la sconfitta, si apre una nuova fase: la Cina, sotto la regia forzata della stessa Cixi, avvia timide ma significative riforme “tardive” – dall’abolizione degli esami confuciani nel 1905, alla nascita di scuole moderne, alle prime strutture di governo locale più razionali.
In conclusione, Cixi non riuscì a fermare la modernizzazione, perché i cambiamenti sociali ed economici erano ormai inevitabili. Il conservatorismo puro, scollegato dalla realtà, si rivelò sterile. La Cina iniziò a trasformarsi non perché lo volle la corte imperiale, ma perché la storia impose il cambiamento.

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