giovedì 31 luglio 2025

Ford e i legami con la Germania


 

Il 30 luglio 1938, mentre in Europa cresceva la tensione che avrebbe portato di lì a poco allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Henry Ford, il magnate dell’industria automobilistica americana, riceveva un riconoscimento sorprendente: la Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, la più alta onorificenza del regime nazista destinata a uno straniero. A conferirgliela, per volere di Adolf Hitler, fu il console tedesco a Detroit, in una cerimonia ufficiale. Il fatto, per quanto passato sotto silenzio all’epoca da gran parte della stampa americana, rappresenta uno degli episodi più controversi nella storia dell’industria statunitense. Il legame tra Ford e la Germania hitleriana non fu soltanto simbolico: aveva radici ideologiche, economiche e industriali profonde.

La Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca non era un premio qualsiasi. Fu istituita dal Terzo Reich per onorare coloro che si erano distinti, anche all’estero, per il loro contributo — diretto o indiretto — agli interessi della Germania nazista. Tra i pochi a riceverla ci furono figure come Benito Mussolini e altri simpatizzanti o collaboratori del regime. Ford fu l’unico americano a riceverla prima della guerra, un fatto che destò scalpore nei circoli diplomatici ma che venne minimizzato pubblicamente. Non risulta che Ford abbia mai rifiutato o restituito l’onorificenza, neppure dopo lo scoppio del conflitto mondiale.

Il legame tra Henry Ford e l’ideologia nazista non fu soltanto economico. Già negli anni ’20, Ford era noto per il suo antisemitismo militante. Tra il 1920 e il 1927 finanziò e pubblicò sul suo settimanale personale, The Dearborn Independent, una lunga serie di articoli antisemiti, successivamente raccolti e diffusi in tutto il mondo sotto il titolo The International Jew (L’ebreo internazionale). Il libro ebbe grande diffusione anche in Germania e fu citato positivamente da Adolf Hitler nel Mein Kampf. Hitler, che ammirava Ford come simbolo del capitalismo produttivo "non contaminato", teneva addirittura una sua fotografia nel suo ufficio personale.

Parallelamente a questa vicinanza ideologica, esisteva anche una relazione economica concreta. La Ford Werke AG, filiale tedesca della casa automobilistica americana, era attiva in Germania fin dagli anni ’20. Con l’ascesa al potere del nazismo, l’azienda proseguì le sue attività e — almeno fino allo scoppio della guerra — collaborò con lo stato tedesco anche nella produzione di mezzi a uso militare, come camion e veicoli per la Wehrmacht. Durante la guerra, la fabbrica di Colonia fu riconvertita in parte alla produzione bellica e, secondo molte fonti storiche, utilizzò lavoratori forzati, compresi prigionieri di guerra e deportati civili. Anche se Ford Motor Company sostenne in seguito di aver perso il controllo diretto della filiale dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, le responsabilità restano oggetto di dibattito.

martedì 29 luglio 2025

La storia insegna che dazi e conservatorismo non fermano il progresso: la rivolta dei boxer


 

Nel 1898, l’imperatore Guangxu lancia la Riforma dei Cento Giorni, ispirata al modello giapponese Meiji: un piano ambizioso per modernizzare scuola, burocrazia, industria ed esercito. Ma dopo appena tre mesi, l’Imperatrice vedova Cixi, simbolo del conservatorismo Qing, stronca tutto con un colpo di Stato. Guangxu viene esiliato nel suo stesso palazzo, e i principali riformatori messi a tacere.

Due anni dopo, esplode la Rivolta dei Boxer: un’insurrezione nazionalista e xenofoba che prende di mira i missionari cristiani e le presenze economiche straniere, viste come causa del degrado economico locale. Cixi, nella speranza di ristabilire un equilibrio anti-occidentale, decide di appoggiare i Boxer. Ma è un grave errore strategico: l’intervento armato dell’Alleanza delle Otto Nazioni devasta Pechino, costringe l’impero Qing a pesanti risarcimenti e impone un’umiliante occupazione straniera.

Quel fallimento dimostra che il conservatorismo rigido e isolazionista non porta buoni frutti. Il tentativo di proteggere l’ordine antico finisce per accelerarne il crollo. Eppure, proprio dopo la sconfitta, si apre una nuova fase: la Cina, sotto la regia forzata della stessa Cixi, avvia timide ma significative riforme “tardive” – dall’abolizione degli esami confuciani nel 1905, alla nascita di scuole moderne, alle prime strutture di governo locale più razionali.

In conclusione, Cixi non riuscì a fermare la modernizzazione, perché i cambiamenti sociali ed economici erano ormai inevitabili. Il conservatorismo puro, scollegato dalla realtà, si rivelò sterile. La Cina iniziò a trasformarsi non perché lo volle la corte imperiale, ma perché la storia impose il cambiamento.

giovedì 17 luglio 2025

Cavour e i dazi, l'attualità della storia


Di solito la storia non mente: gli esempi del passato, su temi oggi di estrema attualità, sono quanto mai utili per uscire dalle secche di un’economia irrigidita.

Pensare a un illuminato statista – e anche giornalista – come Camillo Benso di Cavour, significa ricordare come egli fondò la sua politica di costruzione dell’Italia sul libero scambio commerciale, opponendosi strenuamente ai dazi doganali. La sua posizione nasceva da una profonda adesione ai principi dell’economia liberale di stampo britannico, in particolare al pensiero di Adam Smith e dei suoi successori, secondo i quali il commercio libero avrebbe portato ricchezza, innovazione e progresso per tutti.

Secondo Cavour, i dazi – ovvero le tasse sulle merci importate – proteggevano artificialmente le industrie meno efficienti, rallentando il miglioramento tecnologico e mantenendo alti i prezzi per i consumatori. In un discorso al Parlamento sabaudo del 1847, affermò che i dazi rappresentavano una forma di “tassa nascosta” che finiva per danneggiare sia i produttori che i consumatori, in particolare le classi più povere, costrette a pagare di più beni essenziali come grano, tessuti e metalli.

Cavour riteneva inoltre che il libero commercio tra i popoli fosse un mezzo per favorire la pace e la cooperazione internazionale: più le nazioni sono economicamente interdipendenti, minori sono le probabilità che si scontrino in guerra.

La sua politica economica portò il Regno di Sardegna a firmare importanti trattati commerciali con Francia e Inghilterra, aprendo i mercati e rafforzando i legami diplomatici. La modernizzazione agricola e industriale del Piemonte negli anni Cinquanta dell’Ottocento fu, in gran parte, il frutto di queste scelte.

Cavour era consapevole che aprire il mercato avrebbe messo in difficoltà alcuni settori arretrati, ma riteneva ciò necessario per spingere l’economia verso l’innovazione. Rifiutava l’idea che lo Stato dovesse proteggere indefinitamente chi non riusciva a competere, preferendo invece creare le condizioni per favorire la crescita delle imprese più dinamiche.

In un’Italia ancora frammentata, la sua visione aveva anche una forte valenza politica: il libero scambio poteva diventare un collante economico tra le diverse regioni, superando barriere locali e creando una nazione unita non solo sul piano politico, ma anche economico.

Ecco perché, a distanza di oltre 170 anni, il pensiero di Cavour rappresenta ancora un esempio attuale e lungimirante, a cui guardare con estrema fiducia.



mercoledì 9 luglio 2025

Quando le tensioni politiche finivano in duello (il caso Burr)


 Era il 1804 quando la tensione politica e personale tra Aaron Burr, vicepresidente degli Stati Uniti in carica, e Alexander Hamilton, ex segretario del Tesoro e padre fondatore, esplose in maniera irreparabile. Burr, reduce da una pesante sconfitta elettorale nello Stato di New York, era convinto che il responsabile fosse proprio Hamilton, che da mesi lavorava dietro le quinte per ostacolarne l’ascesa politica, scrivendo lettere a esponenti del partito federalista e mettendo in dubbio la sua integrità e le sue ambizioni. Ma a far traboccare il vaso furono alcune frasi sprezzanti pronunciate da Hamilton durante una cena ad Albany, che divennero di dominio pubblico. Nell’America del tempo, la reputazione era tutto: Burr si sentì colpito nell’onore e, nonostante il duello fosse vietato nello Stato di New York, sfidò Hamilton a battersi al di là del fiume Hudson, nel New Jersey, dove le leggi erano più tolleranti. Il duello si consumò il mattino dell’11 luglio 1804, a Weehawken. Hamilton sparò in aria, forse per risparmiare l’avversario; Burr no. Alexander Hamilton morì il giorno seguente. Burr, pur non condannato formalmente, vide la sua carriera politica finire con quello sparo. Una pagina oscura della storia americana, che ci ricorda come, un tempo, le tensioni politiche potevano trasformarsi in tragedie personali, anche ai vertici della nazione (insomma nulla di nuovo sotto il sole).


domenica 6 luglio 2025

Apologia del Tommy


 

Tommy chi era costui ? Senza scomodare Carneade e sopratutto Alessandro Manzoni e i suoi promessi sposi è un archetipo, una figura metodologica per identificare un modello e in questo caso il fante britannico Nato nei moduli ufficiali dell’esercito britannico, il nome “Tommy Atkins” era, inizialmente, poco più di un artificio amministrativo. Usato già nel XIX secolo per indicare genericamente il soldato britannico in esempio di documenti e formulari, compare per la prima volta nel 1815, in piena epoca post-napoleonica. Ma è solo con la Prima Guerra Mondiale che il “Tommy” diventa qualcosa di ben diverso: un simbolo nazionale, il volto umano e collettivo di una tragedia che avrebbe cambiato per sempre la coscienza del Regno Unito. Durante la Grande Guerra, il “Tommy” era l’uomo nella trincea, il soldato semplice, quasi sempre senza gradi, spesso proveniente da ambienti operai o rurali. Era il ragazzo partito volontario con entusiasmo patriottico, o l’uomo arruolato per dovere, che si ritrovava gettato nella brutalità del fronte occidentale: le trincee fangose della Somme, i campi devastati di Passchendaele, l’inferno di Ypres. Lontano dai comandi e dalle strategie militari, il Tommy viveva l’esperienza diretta della guerra: la paura costante, le notti tra i topi, i gas, i bombardamenti incessanti. Eppure, in quel contesto estremo, emerse una figura fatta di resistenza silenziosa, cameratismo e dignità. Il Tommy non era un eroe da prima pagina, ma un uomo che, ogni giorno, resisteva, con un’umanità che parlava al cuore di tutti. Uno degli aspetti più sorprendenti della figura del Tommy fu la sua capacità di affrontare l’orrore con umorismo nero, ironia, e una lucidità che spesso superava quella dei suoi superiori. Le sue lettere dal fronte, le canzoni, le battute, raccontano non solo la fatica e la sofferenza, ma anche una forza d’animo collettiva, una forma di sopravvivenza emotiva. Ma il Tommy fu anche il volto della disillusione. Dopo le prime ondate di entusiasmo patriottico, arrivarono le perdite immense, le offensive fallite, le strategie incomprensibili. Nacque un senso di amarezza, spesso rivolto verso comandi percepiti come distanti, talvolta incapaci di comprendere la realtà del fronte. Il Tommy diventò così anche una figura critica, simbolo di un popolo che iniziava a guardare con occhi diversi alla guerra e ai suoi costi umani.Con il passare degli anni, la figura del Tommy è diventata parte integrante della memoria britannica. I monumenti ai caduti, le cerimonie del Remembrance Day, i papaveri rossi indossati ogni novembre, portano con sé l’eco del suo silenzioso coraggio. È lui il volto sulle targhe di pietra nei villaggi inglesi, è lui il protagonista delle poesie di Wilfred Owen e Siegfried Sassoon, è lui la sagoma trasparente dell’installazione “There But Not There” nei centenari della guerra il testimone di una generazione segnata per sempre dal conflitto esattamente a 109 anni dalle Somme.

mercoledì 2 luglio 2025

Mettere delle restrizioni non paga mai: il locomotive act 1865


 

Il progresso non si ferma. Lo si può rallentare, ostacolare, perfino circondare di divieti — ma prima o poi passa. Nel 1865, la Gran Bretagna cercò di fermarlo con una bandiera rossa. È il cuore del celebre Locomotive Act, la prima legge al mondo che introdusse limiti di velocità per i veicoli a motore. Una norma che oggi ci fa sorridere, ma che allora sembrava necessaria.

Le “locomotive stradali” — antenate delle automobili — facevano paura. Sbuffavano vapore, facevano rumore, spaventavano cavalli e persone. Così il Parlamento impose una legge paradossale: 2 miglia orarie in città (3,2 km/h) e l’obbligo che ogni veicolo fosse preceduto da un uomo a piedi con una bandiera rossa. Il messaggio era chiaro: la modernità può arrivare, ma solo se cammina. Ma dietro la cautela si nascondevano anche interessi economici: carrettieri, compagnie ferroviarie e tutto il mondo del trasporto tradizionale cercavano di difendersi dal cambiamento. Un po’ quello che accade oggi con i dazi commerciali: strumenti pensati per tutelare settori in difficoltà, ma che spesso finiscono per frenare l’innovazione.

Il risultato? L’automobile in Inghilterra restò indietro di trent’anni, mentre nel resto d’Europa si sperimentava e si produceva. Ma non si fermò. Nel 1896, quella legge fu abolita e il futuro si rimise in moto. Il progresso, se anche lo obblighi a camminare, prima o poi corre.


Coppa di Divisione buona la prima 6 a 0 all'Itar

  Ci siamo: inizia una nuova stagione da vivere con passione a bordo parquet! Nella passata stagione siamo arrivati a un soffio dal realiz...