venerdì 31 ottobre 2025

Il VAR e l’incubo della moviola infinita


 



Il VAR, nelle intenzioni dei grandi burattinai del calcio, doveva essere la rivoluzione perfetta. L’arma tecnologica che avrebbe messo fine a ogni discussione, dissolvendo le ombre del sospetto e restituendo alla giustizia sportiva la sua purezza originaria. In teoria, un’idea impeccabile. In pratica, un incubo a colori.

A distanza non di mesi ma di anni, il grido profetico di Aldo Biscardi — “vogliamo la moviola in campo!” — è diventato la nostra ossessione domenicale. Quella che doveva essere la fine delle polemiche è diventata la loro moltiplicazione infinita. Ora le proteste non si fermano al “rigore sì, rigore no”: si dibatte di simulazioni e di scene teatrali, di angolazioni, di fotogrammi, di ginocchi sporgenti e di ascelle in fuorigioco.

Gli arbitri in campo non sono più soli. Alle loro spalle, o meglio sopra le loro teste, un esercito di giacchette fosforescenti, chiuse nelle sale operative di Lissone, analizza ogni tocco, ogni movimento, ogni frammento di partita. Non una palazzina arbitrale, ma un centro di controllo degno della NASA, dove si misura l’ångström che separa la regolarità dall’infamia sportiva.

La geometria ha sostituito l’intuito, il teorema ha preso il posto del fischietto. E così la partita, anziché scorrere nel suo ritmo naturale, diventa una sequenza di pause, attese, sospiri. Al gol non si esulta più: si aspetta la sentenza, come al tribunale dell’’Aia. L’arbitro tocca l’orecchio, il pubblico trattiene il fiato, il tempo si congela. Poi arriva il verdetto, spesso accolto da urla e improperi.

Il bello è che, nonostante tutto questo arsenale di tecnologia, il dubbio resta sempre. Forse perché il calcio, come la vita, non è fatto per essere vivisezionato al millimetro. È un gioco d’istinto, di errori, di emozioni. E invece lo stiamo trasformando in una perizia balistica. Ogni domenica, milioni di tifosi si improvvisano ingegneri ottici, analizzano immagini rallentate, tracciano linee colorate, citano regolamenti con la passione di un penalista. La promessa era di “rendere il calcio più giusto”. Il risultato? Lo abbiamo reso più nevrotico.

E così, mentre a Lissone le antenne del VAR scrutano ogni fotogramma con l’infallibilità della macchina, giù nei bar e sui social si accende la solita canea: c’è chi grida al complotto, chi invoca la Var Room come un oracolo infedele, chi sospetta favoritismi algoritmici. Una tecnologia che doveva pacificare il calcio lo ha reso ancora più divisivo.

A volte viene da pensare che il vero fuorigioco non sia quello di un attaccante con la punta del piede avanti, ma quello di uno sport che ha smarrito la sua spontaneità.

Una sola certezza rimane, tra ironia e rassegnazione: non vorrei abitare a Lissone. Perché, di questo passo, con le antenne che scrutano e i tifosi che ribollono, prima o poi qualcuno rischia di confondere la palazzina del VAR con la sede dell’ingiustizia calcistica universale e dalla presa della Bastiglia a quella dell’Antenna è un attimo.



giovedì 30 ottobre 2025

Fräulein Doktor, la spia che non mise mai piede sul campo


Non sparò mai un colpo, non attraversò notti di tempesta in trench e cappello a tesa larga, e non consegnò microfilm nascosti in una sigaretta. Eppure, Fräulein Doktor fu una delle menti più sottili — e più pericolose — dello spionaggio tedesco nella Prima guerra mondiale. Una spia… senza spiare davvero. O meglio, una direttrice d’orchestra del segreto, che dalla sua scrivania riuscì per mesi a far ballare la flotta britannica come voleva lei. La leggenda racconta che non si sapesse nemmeno il suo vero nome. C’è chi la immagina come un’intellettuale dallo sguardo tagliente dietro occhiali sottili, chi come una femme fatale in abito di seta e rossetto scuro. Forse era semplicemente una donna con un cervello che andava più veloce dei generali. Mentre gli uomini scavavano trincee, lei scavava reti di spie. La sua arma? Il linguaggio commerciale. Altro che codici cifrati e inchiostri simpatici: la Fräulein usava telegrammi che parlavano di... sigari. “Pregasi inviare a Portsmouth 3.000 Corona e 8.000 Avana entro il 10 maggio.” Così recitava uno dei suoi dispacci. Tradotto:
“Il 10 maggio nel porto di Portsmouth ci sono 3 corazzate e 8 incrociatori.” Un colpo di genio. Chi mai avrebbe sospettato che dietro un ordine di sigari si nascondesse la
mappa della marina britannica? Gli agenti olandesi, comparse perfette in questa commedia bellica, si fingevano commercianti neutrali e trasmettevano le informazioni alla centrale tedesca di Amsterdam, con il garbo di chi chiede un buon tabacco. Tutto funzionò alla perfezione… finché qualcuno non si accorse che in piena guerra nessuno importava 8.000 sigari Avana alla settimana. L’intelligence britannica non ci mise molto a unire i puntini: troppi ordini, troppa fretta, troppi sigari per un Paese in trincea. E così la rete della nostra raffinata Fräulein cadde, come un soufflé ben montato ma cotto troppo in fretta. Lei, però, non fu mai catturata. Non mise mai piede sul suolo britannico. Nessun processo, nessuna condanna. Solo un’aura di mistero e un nome che riecheggiava tra i corridoi dell’intelligence come una leggenda: Fräulein Doktor

martedì 28 ottobre 2025

Un martedì da leoni per gli Orange: 3-1 al CDM Futsal e passaggio ai sedicesimi di Coppa di Divisione


 Una vecchia pubblicità recitava “un martedì da leoni”, e mai come questa volta la frase calza a pennello per raccontare l’impresa del gruppo di Patanè, capace di superare per 3-1 il CDM Futsal, formazione che milita in Serie A1, al termine di una gara intensa e combattuta fino all’ultimo secondo. È la Coppa di Divisione, dove tutto può succedere e in una partita secca può accadere l’impensabile. Ma quella degli Orange non è stata una vittoria figlia del caso: è stata il risultato di determinazione, sacrificio e cuore, di una squadra che ha creduto fino in fondo nei propri mezzi.

Nel primo tempo le occasioni non sono mancate da entrambe le parti, ma a rompere l’equilibrio è stato un eurogol di Ibra, una rete di potenza e precisione che ha infiammato il Palabrumar. Nella ripresa gli Orange hanno saputo colpire in modo letale in ripartenza, trovando il raddoppio con Angelino e poi il tris con il Condor Piazza. Il gol della bandiera per gli ospiti è arrivato solo nel finale, complice anche l’espulsione diretta di Vitellaro. Ma il risultato non è mai stato davvero in discussione: gli Orange hanno saputo soffrire, gestire e colpire con lucidità da grande squadra. Con questo successo, la formazione di Patanè prosegue il cammino in Coppa, approdando ai sedicesimi di finale e portando a casa una vittoria che dà fiducia, morale e consapevolezza dei propri mezzi. Una partita dispendiosa, certo, ma anche un segnale forte: questo gruppo ha carattere, gioco e fame. Ora, archiviata la serata magica di Coppa, è tempo di tornare a concentrarsi sul campionato, dove le sfide si preannunciano altrettanto impegnative.

Forza Orange!



domenica 26 ottobre 2025

Un sabato di festa al Palabrumar: gli Orange travolgono il VDL


 

Un sabato di festa al Palabrumar, dove la squadra di Patanè si impone con autorità sul VDL al termine di una partita dominata dall’inizio alla fine. Gli Orange hanno messo in campo un pressing costante, una fame di gol feroce e una concentrazione che non ha lasciato scampo agli avversari.

Eppure, non è stata una partita facile: per portarla sui binari giusti ci è voluta tutta la determinazione del gruppo e la zampata del solito Francalanci, baluardo difensivo e ormai habitué del gol, che ha sbloccato il risultato raccogliendo una delle tante incursioni sotto porta. Da lì, in appena quindici secondi, il dinamico duo Ibra-Piazza ha piazzato un uno-due micidiale, portando la squadra sul 3-0 e mettendo in discesa il match.

Sotto nel punteggio, la formazione di capitan Ongari ha provato a reagire, ma così facendo ha lasciato ampi spazi alle ripartenze fulminanti degli Orange, che hanno chiuso il primo tempo sul 6-0. Da applausi la rete di Alves, talento purissimo con il pallone tra i piedi.

Nella ripresa, nessun calo di tensione: anzi, il furore agonistico dei padroni di casa è rimasto altissimo. A completare la festa ci hanno pensato ancora il Condor Piazza, il magnifico Ibra e il metronomo Montauro, autori di reti di pregevole fattura.

Il VDL, rimasto senza portiere per espulsione, ha tentato la carta del portiere di movimento, ma senza risultati. La rete della bandiera, firmata su rigore da Ongari, è arrivata quando ormai i titoli di coda stavano per calare.

Siamo solo a ottobre, ma gli Orange hanno già messo tanto fieno in cascina e, soprattutto, hanno mostrato solidità, fame e mentalità vincente. Ora all’orizzonte si profilano due sfide impegnative, contro Isola e Cornedo, ma la strada sembra quella giusta.


Orange vs VDL  10 1 (6 0 pt)


venerdì 24 ottobre 2025

Creswick e Prest tutta colpa loro - Sheffield dal 24 ottobre 1857


 

Il 24 ottobre 1857, a Sheffield, nel cuore industriale dell’Inghilterra vittoriana, due ragazzi — Nathaniel Creswick e William Prest — fondarono lo Sheffield Football Club, destinato a entrare nella storia come il club calcistico più antico del mondo.
Non esisteva ancora la Football Association, non c’erano campionati né arbitri, solo la passione per un gioco che stava nascendo tra le scuole e i circoli sportivi del Nord inglese. 
Creswick e Prest, entrambi membri del locale club di cricket, decisero di creare una società dedicata esclusivamente al “football”, codificando un proprio regolamento: le Sheffield Rules. Quelle regole, che prevedevano per esempio il “fair catch”, il calcio d’inizio e il concetto di “corner”, furono la base su cui, nel 1863, la neonata Football Association costruì le prime regole ufficiali del calcio moderno.

Lo Sheffield FC non è mai diventato un gigante sportivo, ma è rimasto un simbolo: un club fondato per il piacere del gioco, per lo spirito di squadra e per la lealtà. Oggi milita nelle serie minori inglesi, ma gode di un riconoscimento unico: nel 2004 la FIFA gli ha conferito il titolo di “Club Patrimonio dell’Umanità del Calcio”, in onore del suo ruolo fondativo. Da oltre un secolo e mezzo, i colori nero e rosso dello Sheffield FC raccontano una storia semplice e nobile: quella di chi, per primo, ha deciso di dare forma a un gioco che sarebbe diventato una passione planetaria.

Nel calcio di oggi, fatto di miliardi e spettacolo, il club di Sheffield resta una memoria vivente di quando bastavano un pallone, un prato e la voglia di giocare.

giovedì 23 ottobre 2025

Breitwieser l'Arsenio Lupin dell'arte


Per oltre sei anni, tra il 1995 e il 2001, un uomo ha sfidato musei, gallerie e chiese di mezza Europa con un’ossessione tanto singolare quanto disarmante: rubare opere d’arte non per venderle, ma per ammirarle. Si chiama Stéphane Breitwieser, alsaziano, nato nel 1971, e la sua è forse la storia più sorprendente mai scritta sull’amore – e sulla dipendenza – per la bellezza. Non era un ladro nel senso classico del termine. Non aveva complici armati, non usava forza o violenza. Visitava piccoli musei, spesso di provincia, dove la sicurezza era minima e i visitatori pochi. Entrava con passo tranquillo, osservava a lungo un dipinto, poi – con calma e precisione – lo staccava dal muro, lo nascondeva sotto il cappotto e se ne andava. Insieme a lui, quasi sempre, c’era la compagna Anne-Catherine Kleinklaus, che lo accompagnava nei viaggi e faceva da palo durante i furti.

In poco più di un lustro, Breitwieser ha sottratto oltre 300 opere d’arte da musei in Francia, Belgio, Germania, Svizzera, Olanda e Italia. Il valore complessivo del bottino è stato stimato in oltre un miliardo e mezzo di euro. Ma nessuna di quelle opere è mai finita sul mercato nero.
Tutto era conservato nella casa della madre, in Alsazia, dove una camera da letto si era trasformata in un piccolo museo personale: quadri di Lucas Cranach, miniature del Cinquecento, argenti, strumenti musicali, cornici dorate. Breitwieser trascorreva le giornate in quella stanza, contemplando la collezione come un curatore privato, convinto di vivere un rapporto esclusivo con la bellezza.

Il suo è stato definito un caso di “cleptomania estetica”: un impulso non legato al denaro, ma al desiderio di possedere ciò che si ama. In un’intervista, anni dopo, ha dichiarato: “Non rubavo per profitto, ma per passione. Ogni opera mi chiamava. Dovevo averla vicino, vederla ogni giorno.”

Tutto crollò nel novembre 2001, quando venne arrestato a Lucerna, in Svizzera, dopo un furto andato storto. Durante la sua detenzione, la madre, temendo una perquisizione, distrusse gran parte delle opere. Ne tagliò molte, ne bruciò altre, ne gettò alcune in un canale.
Più di
cento capolavori andarono perduti per sempre: un disastro culturale senza precedenti. Quando Stéphane lo seppe, reagì con incredulità e disperazione. Il suo “museo segreto”, il tempio privato della sua ossessione, era svanito nel nulla.

Condannato a tre anni di prigione in Svizzera, poi a ulteriori pene in Francia, Breitwieser non smise di occuparsi d’arte. Nel 2006 pubblicò l’autobiografia Confessions d’un Voleur d’Art, in cui racconta la sua ossessione come una forma di amore assoluto: una tensione tra desiderio estetico e colpa, tra il culto della bellezza e la trasgressione del possesso.

Ma l’ossessione, come spesso accade, non guarì. Nel 2019 la polizia francese trovò nella sua abitazione decine di nuovi oggetti rubati – dipinti, sculture, argenti – segno che il richiamo dell’arte continuava a dominare la sua vita. Oggi vive in libertà vigilata, osservato con la stessa curiosità e diffidenza che si riserva ai personaggi più complessi: vittima e carnefice, romantico e ladro, appassionato e distruttore.

La vicenda di Stéphane Breitwieser resta una parabola contemporanea sul confine sottile tra amore e ossessione, tra ammirazione e possesso. La sua storia interroga il nostro rapporto con la bellezza: possiamo davvero “possedere” ciò che amiamo, o nel tentativo di farlo finiamo per distruggerlo?
Nel caso di Breitwieser, la risposta è tragica e definitiva: il ladro che rubava per custodire l’arte finì per perderla per sempre.

mercoledì 22 ottobre 2025

L'arte di parlare bene


 

Ci sono cose che non invecchiano mai. Una di queste è l’arte del parlare. Non importa quanti secoli passino: quando si tratta di convincere, raccontare, toccare chi ascolta, i principi restano sempre gli stessi. Lo sapeva bene Cicerone, che ha lasciato in eredità cinque passaggi fondamentali per costruire un discorso efficace. Non regole rigide, ma un metodo, quasi una bussola.

Si comincia con l’Inventio, il momento in cui le idee prendono forma. È la fase della ricerca, del pensiero che si allarga, che esplora. Lì l’oratore si fa domande, cerca argomenti, sceglie cosa dire. È il cuore del discorso: se non c’è sostanza, la parola si svuota. Poi viene la Dispositio, e qui la riflessione diventa costruzione. Le idee non possono restare sparse: vanno messe in ordine, con cura. Ogni parte del discorso ha il suo posto, come in una sinfonia. Chi ascolta deve sentirsi accompagnato, non trascinato. A quel punto entra in gioco l’Elocutio, la scelta delle parole. E non è solo questione di bellezza. Lo stile è sostanza: dire qualcosa in un modo o in un altro cambia tutto. Un linguaggio troppo alto allontana, uno troppo semplice banalizza. L’equilibrio è tutto. Poi c’è la Memoria, che non è solo ricordare, ma assimilare. Quando conosci davvero ciò che vuoi dire, puoi farlo tuo. L’oratore che padroneggia il discorso è libero: può adattarsi, rispondere, sentire il pubblico. Le parole gli vengono naturali, come il respiro. E infine, l’Actio: la presenza, la voce, i gesti. È il momento in cui il discorso diventa vivo. Qui non basta sapere, bisogna saper stare. Il corpo parla quanto la lingua. È qui che il pensiero arriva al pubblico, e si trasforma in emozione, in coinvolgimento, in persuasione. Cicerone lo aveva capito: parlare bene non è improvvisare, né recitare. È pensare con chiarezza, scegliere con attenzione, e dire con autenticità. Le sue cinque fasi sono ancora oggi una guida per chiunque voglia essere ascoltato davvero. Perché il buon parlare è, prima di tutto, buon pensare.

Il VAR e l’incubo della moviola infinita

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