sabato 19 aprile 2025

Droghe in guerra Pervitin e Philopon

 


La guerra ha sempre richiesto al corpo umano più di quanto fosse lecito chiedere. Resistenza, lucidità, forza, prontezza. E spesso, per ottenere prestazioni oltre i limiti naturali, si è fatto ricorso a un alleato silenzioso e inquietante: le droghe. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il loro uso fu massiccio e sorprendentemente “istituzionalizzato”. In Giappone, ai soldati veniva somministrato Philopon, una metanfetamina che annullava il bisogno di dormire e la paura. In Germania, il Pervitin – conosciuto anche come “cioccolata dei carri armati” – veniva distribuito in milioni di compresse per sostenere le truppe nelle offensive lampo. In pochi anni, queste sostanze divennero parte integrante della macchina bellica. Non erano più semplici stimolanti: erano strumenti per potenziare il soldato, per renderlo più efficace, più obbediente, meno umano. Ma sotto l’effetto di queste sostanze, i soldati diventavano sì più resistenti, ma anche più instabili, più impulsivi, a volte allucinati. La guerra li voleva efficienti, ma a quale prezzo? Per molti, quel prezzo è stato un crollo psicologico da cui non si sono più ripresi

Ma fu durante la guerra del Vietnam che la questione assunse una portata inedita. Tra il 1966 e il 1969, l’U.S. Department of Defense distribuì oltre 225 milioni di compresse di anfetamine, soprattutto Dexedrina (dextroamfetamina), ai soldati americani. Lo scopo ufficiale era mantenerli svegli, concentrati e reattivi nelle lunghe missioni nella giungla. Le pillole venivano consegnate dai medici militari, su richiesta o come dotazione di reparto.

Accanto a questa distribuzione ufficiale, proliferava un uso parallelo e non controllato di altre sostanze: marijuana, eroina, LSD, alcol (spesso grappa o whisky portati da casa o reperiti sul campo). Secondo una stima del Congresso del 1971, oltre il 15% dei soldati americani in Vietnam era dipendente da eroina. Non si trattava più solo di migliorare le prestazioni: molti cercavano un rifugio psicologico per sopravvivere all’assurdità della guerra, o per disconnettersi dal trauma.

E oggi? Potremmo pensare che con l’evoluzione tecnologica tutto questo sia finito. In realtà, l’uso di sostanze psicoattive nel contesto militare non solo non è sparito, ma si è raffinato.

Nell’epoca dei droni e delle guerre asimmetriche, l’obiettivo non è più solo resistere alla fatica fisica, ma sostenere la pressione mentale, gestire turni estenuanti, mantenere lucidità per ore o giorni interi. Ecco perché alcune sostanze vengono usate — talvolta sotto controllo medico, talvolta in modo più ambiguo — in diversi contesti militari moderni.

Il Modafinil, ad esempio, è uno dei farmaci più diffusi tra i reparti speciali. Usato originariamente per trattare la narcolessia, permette di restare svegli fino a 40-50 ore consecutive senza i cali di attenzione tipici delle anfetamine. Viene definito spesso una “smart drug”, e ha trovato applicazione in missioni a lunga durata, soprattutto in aviazione.

Un altro stimolante usato è la Dexedrina (dextroamphetamine), impiegata ancora oggi per aumentare vigilanza e riflessi. In alcuni casi, i soldati ricevono “go pills” (pillole per “andare”) prima delle missioni, e “no-go pills” (sedativi o ansiolitici) per calmarsi una volta terminata l’operazione. È un equilibrio chimico pensato per gestire la tensione della guerra moderna, dove tutto può succedere in pochi secondi, ma l’adrenalina resta nel sangue per giorni.

C’è anche l’aspetto farmacologico legato alla gestione del trauma. Sempre più spesso si utilizzano antidepressivi, ansiolitici e beta-bloccanti in via preventiva o come protocollo standard in situazioni di stress estremo. Il rischio, ovviamente, è quello di affidarsi a una “normalizzazione farmacologica” del conflitto: curare chimicamente le ferite invisibili, senza affrontare la radice psicologica.

Il corpo del soldato, quindi, non è più solo il mezzo attraverso cui si combatte: è diventato un territorio da modificare, da adattare, da migliorare. Ma ogni pillola presa per restare lucidi, per non dormire, per non sentire la paura… è un passo verso la disumanizzazione del combattente.






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