Due film
di guerra uno realizzato e prodotto da quel vecchio volpone di Nolan e l’altra
dall’esordiente Sepe, tutti e due spettacolari, tutti e due dedicati all’introspezione
psicologica dei personaggi, dei soldati che lottano non solo per la loro
sopravvivenza ma che si interrogano sul futuro e sulla nazione. L’ansia da
prestazione prende il sopravvento, l’obiettivo non è l’uccisione del nemico, ma
la sopravvivenza. Nolan lo rende benissimo in Dunkirk, gli occhi stralunati dei
protagonisti sono li a rendere merito di questa ricerca spasmodica di un
appiglio che li renda consapevoli del loro ruolo. Il giudizio della gente, cosa
penseranno di noi, si stempera proprio nell’accoglienza finale di un popolo che
coglie il momento di difficoltà “siamo sopravvissuti” dice il soldato e “vi
pare poco” risponde l’anziano che li accoglie. Più scuro e con molte
connotazioni su responsabilità della guerra combattuta invece nel
lungometraggio di Sepe. Una guerra persa, combattuta dalla parte sbagliata che
però, pur nella tragedia del combattimento fa emergere un lato di umanità anche
in chi faceva parte di squadroni votati alla morte. La guerra vista con gli
occhi del soldato non è gloria, è soltanto carneficina da cui allontanarsi il
più velocemente possibile. We shall never surrender (non ci arrenderemo mai)
più che al nemico è dedicato alla vita
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